Geopolitical Weekly n. 292

Geopolitical Weekly n. 292

Di Giulia Lillo e Giulio Nizzo
17.05.2018

Burundi

Lo scorso 17 maggio, la popolazione del Paese è stata chiamata a votare in un referendum costituzionale che, in caso di vittoria del sì, andrebbe a rafforzare ulteriormente i poteri dell’attuale Presidente Pierre Nkurunziza permettendogli, di fatto, di poter governare a vita. Fra i cambiamenti previsti dal referendum vi sono la rimozione del limite di due mandati presidenziali, l’estensione del termine massimo per ciascun mandato da 5 a 7 anni, la riduzione del numero di Vice-Presidenti da due ad uno e la reintroduzione della figura del Primo Ministro. Le misure previste dal referendum sono state fatte passare dal regime come misure necessarie per migliorare la governabilità del paese, ma sono state duramente condannate da tutte le forze di opposizione.

Nkurunziza salì al potere nel 2005, al termine di una sanguinosa guerra civile fra le etnie Hutu e Tutsi, presentandosi come il restauratore dell’ordine e della stabilità. Ancora oggi, parte del suo consenso si fonda proprio su questa narrativa. Tuttavia, nel 2015, allo scadere del suo secondo mandato, Nkurunziza venne rieletto per una terza volta scatenando una forte ondata di proteste ed anche un fallito colpo di Stato da parte del Generale Godefroid Niyombare. Da allora, le proteste contro di lui non sono mai del tutto cessate e sono state quasi sempre seguite da forti repressioni da parte del governo, totalizzando, dal 2015, circa 12.000 morti e 100.000 sfollati. L’esempio più recente potrebbe essere quanto avvenuto lo scorso 12 maggio a Cibitoke, villaggio nel nord-ovest del Paese, dove 30 persone sono state uccise da un manipolo di uomini armati che, secondo la versione ufficiale, avrebbe fatto parte del Fronte di Liberazione Nazionale, un movimento armato di opposizione all’attuale Presidente. Tuttavia, è possibile che le violenze siano state portate avanti da forze del regime stesso per screditare le opposizioni, dal momento che altri episodi di violenza da parte del regime di Nkurunziza hanno seguito dinamiche simili.

Al momento non si conosce ancora l’esito del referendum, ma la tensione nel Paese rimane alta. Una vittoria del Sì, ed il conseguente rafforzamento dei poteri del Presidente, potrebbe scatenare forti ondate di proteste che potrebbero essere represse con violenza e che si potrebbero protrarre per molto tempo.

Indonesia

Durante la giornata del 13 maggio un’ondata di attentati ha scosso Surabaya, la seconda città più popolosa dell’Indonesia. Domenica sono state colpite tre chiese dai membri di un’unica famiglia e la stessa sera si è verificata un’esplosione in un edificio vicino ad una stazione di polizia a circa trenta chilometri da Surabaya. Il giorno successivo, un ulteriore attentato ha colpito la sede principale della polizia della città. Il bilancio finale riferisce di una decina di morti e almeno quaranta feriti.

Gli attacchi sono stati compiuti dal gruppo Jamaah Ansharut Daulah (JAD), ad oggi principale bacino di raccolta del diversificato panorama estremista indonesiano e molto vicino alle posizioni dello Stato Islamico (IS). Diverse dozzine di affiliati al gruppo, infatti, o hanno giurato fedeltà all’autoproclamatosi Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, o hanno provato ad unirsi alle fila del Califfato nel teatro mediorientale.

Gli attentati hanno messo in evidenza una forte ripresa delle attività di matrice jihadista all’interno del Paese. Già in passato l’Indonesia era stato territorio di radicamento del terrorismo jihadista a causa della presenza della rete di al-Qaeda nel Sudest Asiatico. Tuttavia, negli ultimi 15 anni le autorità indonesiane hanno avuto successo nell’indebolire la militanza, che si era atomizzata in cellule disorganizzate sparse a macchia di leopardo nell’arcipelago. La forte influenza di IS, rafforzata dalla presenza di numerosi foreign fighters indonesiani di rientro, ha ridato vitalità alla corrente estremista e ha portato alla nascita di una nuova generazione che si è affiancata a quella dei vecchi militanti.

Iraq

Lo scorso 12 maggio si sono svolte in Iraq le prime elezioni parlamentari dopo la sconfitta militare di Daesh, contraddistintesi per un’affluenza di appena il 44,52%, la più bassa dal 2003. Pur in assenza di risultati definitivi ufficiali, il maggior numero di voti sembra essere andato alla coalizione Sairoon, guidata dal chierico sciita Muqtada al-Sadr in un’insolita alleanza con il Partito Comunista e altre formazioni laiche. Infatti, Sairoon sarebbe arrivata prima in 6 delle 18 province del Paese, fra cui anche Baghdad che da sola vale 69 seggi in Parlamento. Le ragioni del successo di Sadr vanno rinvenute nella lunga campagna contro la corruzione, condotta fin dal 2016 con ampia mobilitazione popolare e toni marcatamente populisti, ma anche nell’immagine non settaria e nazionalista (tanto anti-americana quanto anti-iraniana) che il chierico si è saputo costruire. In base ai risultati preliminari, la seconda forza politica sarebbe la coalizione Fatah, espressione politica delle Forze di Mobilitazione Popolare e vicina a Teheran, mentre l’alleanza Nasr del Premier uscente Haider al-Abadi si sarebbe piazzata terza. Entrambe avrebbero ottenuto risultati di poco inferiori a Sairoon.

L’esito delle urne aprirà quindi, con ogni probabilità, una fase piuttosto lunga di contrattazioni tra queste formazioni, tutte afferenti al blocco sciita che mai come in questa tornata elettorale si è presentato diviso. La ricerca di un nuovo equilibrio tra i partiti sciiti, perno di ogni governo fin dal 2005, non potrà inoltre ignorare attori come l’ex Premier Nouri al-Maliki, a capo del partito Dawa e desideroso di risultare determinante nel prossimo esecutivo, e Ammar al-Hakim, figura religiosa e politica di spicco all’interno del panorama sciita.

Israele

Il 14 maggio 2018 è stato il giorno del discusso e contestato spostamento dell’Ambasciata degli Stati Uniti in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. L’evento, che ha avuto luogo in concomitanza con il 70° anniversario della nascita dello Stato di Israele e nel pieno delle proteste palestinesi nella Striscia di Gaza, rappresenta una mossa simbolica decisiva poiché costituisce un implicito riconoscimento da parte statunitense di Gerusalemme come capitale di Israele.

Infatti, il tortuoso percorso verso il processo di pace, sostenuto sia dai 5 membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sia da altre iniziative internazionali, si è mosso da decenni nel quadro di una posizione di consenso che prevedeva che lo status di Gerusalemme fosse deciso come culmine di negoziati tra Israele e Autorità Nazionale Palestinese (ANP) per un accordo di pace complessivo. Considerando che gli Stati Uniti hanno rivestito un determinante ruolo di mediazione nelle trattative di pace, guadagnando nel tempo la fiducia di ambo le parti, la presa di posizione dell’Amministrazione Trump di non rimanere neutrale e di schierarsi dalla parte di Israele ha offuscato l’affidabilità degli USA agli occhi dell’ANP.

Dunque, lo strappo compiuto da Trump potrebbe sovvertire gli equilibri diplomatici che si sono consolidati nel corso del tempo rispetto alla questione israelo-palestinese, allontanando la prospettiva di una ripresa delle trattative e la fattibilità di una soluzione a due Stati. Infatti, la decisione statunitense non solo sembra privare Washington dello storico ruolo di mediatore, ma indebolisce anche le già fragili posizioni diplomatiche palestinesi che si sono faticosamente fatte spazio nel corso del tempo.

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