Geopolitical Weekly n. 273

Geopolitical Weekly n. 273

Di Matteo Ritucci
26.10.2017

Cina

Dal 18 al 24 ottobre, presso la Grande Sala del Popolo di Pechino, si è tenuto il XIX congresso del Partito Comunista Cinese. L’evento, che ha raccolto più duemila delegati, ha sancito un ulteriore rafforzamento della leadership di Xi Jinping. Il nome del Presidente è stato infatti inserito all’interno della costituzione del Partito Comunista Cinese, accanto a Mao Tse Tung e Deng Xiaoping, in quanto fautore di una nuova interpretazione della dottrina nazionale, il “Socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”, che dovrà guidare lo sviluppo della Cina per i prossimi decenni. Si tratta di un evento di portata storica: grazie a questo speciale emendamento della costituzione, Xi potrebbe, al pari dei suoi illustri predecessori, prolungare la propria carica oltre il limite fissato a due mandati ed essere dunque riconfermato nel 2022.

Di altrettanto rilievo sono le cinque nuove nomine all’interno del Comitato Permanente del Politburo, il più alto organo decisionale del Paese. A fianco della prevista riconferma dell’attuale Primo Ministro Li Keqiang, tra i nuovi incarichi spiccano Li Zhanshu, consigliere personale di Xi per quanto riguarda i rapporti con la Russia, Zhao Leji, da cinque anni a capo del Dipartimento per l’Organizzazione del Partito, Han Zheng, sindaco di Shangai dal 2003 al 2012, e Wang Yang, padre del “Guangdong Model”, quella serie di provvedimenti che hanno impresso una spinta liberale allo sviluppo economico della provincia meridionale. Rispetto agli altri, conosciuti come esponenti parte della sfera di influenza di Xi, la scelta di Wang potrebbe essere letta come un’ulteriore sottolineatura dell’importanza attribuita dal governo cinese alle politiche di maggiore apertura nei confronti della globalizzazione, nonché verso una maggiore attenzione ai bisogni della classe media da parte del potere centrale. Il Presidente, come ha ampiamente espresso nel suo discorso inaugurale, è determinato a rendere nei prossimi anni la Cina il principale hub globale per il commercio internazionale, al fine di portare il Paese ad un ruolo di potenza mondiale entro il 2050.

Egitto

Lo scorso 20 ottobre, presso l’oasi di Bahariya, è avvenuto uno dei più violenti scontri a cui le forze di sicurezza egiziane hanno dovuto far fronte nell’ultimo anno. Secondo alcune fonti, circa 50 tra uomini ed ufficiali di unità anti-terrorismo sono rimasti uccisi nel corso di un’operazione volta a trovare e distruggere un campo di addestramento, che sarebbe stato usato da un gruppo insorgente (sulla cui precisa identità permane incertezza), localizzato nell’area desertica a sud-ovest del Cairo, a metà strada tra il corso del Nilo e il confine libico. Secondo diverse ricostruzioni, le unità egiziane sarebbero state sorprese in un’imboscata che, per tipologia di sistemi d’arma impiegati e per il coordinamento dimostrato, sembra indicare un elevato livello capacitivo.

Negli ultimi anni Il Cairo ha dovuto fronteggiare la minaccia di diversi gruppi insorgenti, acuitasi all’indomani della destituzione dell’ex Presidente Morsi nel 2013. Tuttavia, le principali aree coinvolte in attentati e scontri a fuoco sono, tradizionalmente, la penisola del Sinai (dove è attiva la filiale locale dello Stato Islamico, Wilayat Sinai), la zona del delta e i principali centri urbani lungo il corso del Nilo (dove, oltre a Wilayat Sinai, sono attivi anche gruppi minori come il Movimento Hasm). La presenza e l’eventuale radicamento di un gruppo insorgente nel deserto occidentale egiziano rappresenta quindi un elemento di novità, che può aggravare il già deteriorato quadro di sicurezza del Paese.

Infatti, l’area di Bahariya, dove il controllo governativo resta labile, occupa una posizione strategica grazie alla vicinanza col poroso confine libico e all’accesso che garantisce alle rotte dei traffici illeciti nella più vasta regione del Sahara-Sahel, canali attraverso i quali potrebbero affluire risorse cospicue verso i gruppi insorgenti attivi nel Paese.

Kenya

A partire dal 24 ottobre, in diverse città del Paese, sono avvenuti numerosi scontri in occasione delle elezioni presidenziali, avvenute il 26 ottobre, le seconde nell’arco di soli due mesi. A Kisumu, città capoluogo dell’omonima contea sul Lago Viktoria e roccaforte del candidato del Movimento Democratico Arancione (ODM) Raila Odinga, la Polizia ha aperto il fuoco contro alcuni manifestanti che impedivano l’apertura del seggio elettorale, provocando una morto e tre feriti. Anche a Kibera, la più estesa baraccopoli di Nairobi, e a Migori, al confine con la Tanzania, i sostenitori di Odinga si sono violentemente scontrati con le forze di Polizia.

Gli episodi degli ultimi giorni rappresentano l’ennesima manifestazione dell’ondata di violenza politica che ha colpito il Paese dallo scorso agosto, quando si sono svolte le elezioni presidenziali, vinte dal Presidente uscente Uhuru Kenyatta e successivamente annullate dalla Corte Suprema per presunte irregolarità. Da allora, gli scontri tra sostenitori di Kenyatta e sostenitori di Odinga e le schermaglie tra manifestanti e polizia hanno causato più di 1200 vittime. Il clima di tensione politica risulta ulteriormente polarizzato a causa delle rivalità etniche tra i lealisti di Kenyatta, appartenenti perlopiù al gruppo maggioritario dei Kikuyu, e i difensori di Odinga, espressione della nutrita minoranza dei Luo. Le due etnie sono in conflitto per la supremazia politica nazionale sin dall’indipendenza del Kenya.

Mentre Kenyatta ha invitato i propri sostenitori a presentarsi pacificamente al voto, Odinga ha lanciato un appello a boicottare completamente le elezioni per protestare contro la mancata rimozione dei membri della Commissione Elettorale (CE), accusati di aver coperto i brogli. A causa della tensione crescente e per timore di ripercussioni, cinque membri della commissione su sette si sono auto-sospesi, mentre il suo presidente Roselyn Akambe è fuggita negli Stati Uniti a seguito di minacce di morte.

Il ritiro della candidatura di Odinga, unito al boicottaggio del voto da parte dei sostenitori dell’ODM, rischiano di diminuire la legittimità politica delle elezioni, spingendo il Paese verso un ulteriore innalzamento del livello delle violenze nella conduzione del confronto tra i diversi candidatati ed i gruppi etnici ad essi afferenti.

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