Geopolitical Weekly n. 268

Geopolitical Weekly n. 268

Di Francesco Guastamacchia e Roberta Santagati
20.07.2017

Afghanistan

Il 14 luglio, il Pentagono ha annunciato che le forze statunitensi hanno ucciso in un raid aereo Abu Sayed, il leader dello Stato Islamico in Khorasan (ISIS-K), branca affiliata a Daesh che ha la propria roccaforte nelle province orientali dell’Afghanistan (in particolare Nangarhar e Kunar). L’uccisione sarebbe avvenuta l’11 luglio a seguito dell’incursione di un drone statunitense nella Provincia del Kunar, nella parte orientale del Paese. Il gruppo, tuttavia, non ha ancora confermato la morte del proprio leader nel Khorasan.

Abu Sayed è il terzo emiro del Khorasan ucciso dalle forze di Washington nell’ultimo anno. Prima di lui erano stati uccisi Abdul Hasib, in aprile, e il suo predecessore Hafiz Sayed Khan, nel luglio del 2016. Abu Sayed è stato il primo leader di ISIS-K di origine afghana, in un gruppo storicamente guidato da leader di nazionalità pakistana. Infatti, ISIS-K è stato costituito nel 2015 da membri fuoriusciti dal gruppo dei Talebani pakistani (Tehrik-e-Taliban, TTP) perché in rotta con la leadership di Fazlullah, attuale Emiro del TTP.

Sebbene le forze statunitensi siano determinate a spingere ISIS-K fuori dall’Afghanistan entro la fine dell’anno, milizie provenienti da tutto il continente asiatico starebbero confluendo in ISIS-K. La regione del Khorasan sarebbe, infatti, l’alternativa ideale a Siria e Iraq per quei combattenti che desiderano unirsi a ISIS combattendo su un fronte alternativo rispetto a quello mediorientale. La nazionalità del nuovo leader, che dovrebbe essere nominato entro breve nel Khorasan, potrebbe essere rivelatoria dei rapporti di forza che si stanno configurando all’interno del gruppo con la convergenza di nuovi militanti.

Indonesia

Mercoledì 19 luglio, il governo indonesiano ha dichiarato fuori legge il gruppo islamista Hizb ut Tahrir, che mira alla creazione di un califfato internazionale e la cui attività è segnalata come terroristica in diversi Stati. È la prima formazione ad essere colpita dalle disposizioni del decreto approvato la settimana scorsa dal Presidente indonesiano Joko Widodo, che permette al Governo di sciogliere qualsiasi gruppo sia rappresenti una minaccia all’unità nazionale e alla democrazia del Paese. Dato che le decisioni in merito saranno basate su una valutazione del Governo, senza la necessità di ricorrere all’autorità giudiziaria per le attività di accertamento, la disposizione ha suscitato forti critiche all’interno del Paese.

Il decreto sembra essere stato l’estremo tentativo da parte del Presidente Widodo di arginare l’eventuale ampliamento del sostegno popolare nei confronti delle organizzazioni islamiste radicali all’interno del Paese. Tale scelta sembra rispondere a necessità dia di sicurezza sia politiche. Sul piano securitario, la nuova ondata di estremismo jihadista che sembra interessare il sud-est asiatico dalla nascita di Daesh rappresenta una minaccia alla sicurezza nazionale. In particolare, il recente deterioramento della sicurezza nel sud delle Filippine ha alimentato il timore che, attraverso l’intensificazione della rete di contatti dei gruppi jihadisti del sud est asiatico, la condizioni di sicurezza possano compromettersi anche altrove. Per evitare questo scambio di contatti, Indonesia, Malesia e Filippine hanno recentemente preso la decisione di coordinare i controlli dei confini marittimi.

Oltre a ciò, l’adozione del decreto potrebbe avere anche risvolti sul piano politico e sociale. Il provvedimento infatti, sembrerebbe rispondere alla volontà del Presidente di limitare l’ascesa politica di quelle organizzazioni islamiste estremiste contrarie alla sua Amministrazione e che hanno dato una prova di forza alle ultime elezioni per la nomina del Governatore di Giacarta. In quell’occasione, infatti, la campagna organizzata da Hizb tu Tahrir e dia partiti islamisti contro il governatore uscente Basuki Tjahaja Purnama, braccio destro di Widodo, aveva rappresentato un inaspettato sostegno popolare alle formazioni radicali.

Siria

Il 19 luglio, il Presidente statunitense Trump ha deciso di bloccare il programma di Train & Equip (T&E), gestito dalla CIA, che prevedeva l’addestramento e l’assistenza logistica a alcuni gruppi di ribelli siriani che combattono contro il regime di Bashar al-Assad. Il programma era stato avviato dall’ex Presidente Obama nel 2013 ed era stato sviluppato parallelamente ad un programma analogo del Pentagono. Tuttavia, nessuno dei due programmi aveva ottenuto particolare successo. Le aree coinvolte dalla decisione di Trump saranno il nord-ovest ed il sud del Paese, dove si concentrano i vari gruppi ribelli che hanno partecipato ai programmi.

L’annuncio degli Stati Uniti segue di pochi giorni il G20 in cui Putin e Trump hanno deliberato un cessate il fuoco nelle zone di Deraa, Quneitra e Suwayda, nel sud-ovest della Siria. Tuttavia, i dettagli dell’accordo non sono stati resi noti. Pertanto, l’interruzione del programma T&E potrebbe rientrare tra le contropartite pattuite nell’ambito dell’intesa fra i due leader.

Ad ogni modo, la decisione di Trump non va a modificare il supporto che gli USA garantiscono alle truppe delle Forze Democratiche Siriane (SDF) guidate dai curdi, che sono impegnate nell’importante offensiva contro lo Stato Islamico (IS) su Raqqa, nell’est del Paese.

La cessazione dei programmi di T&E fa quindi emergere con maggiore chiarezza quali siano le priorità dettate dalla nuova Amministrazione USA riguardo alla crisi siriana. Lo sforzo bellico e l’assistenza garantita agli alleati sul campo vengono concentrati soprattutto nella parte orientale del Paese, dove esiste ancora una diffusa presenza dell’IS. Inoltre, il disinteresse sempre più marcato di Washington rispetto all’evoluzione della situazione nell’ovest della Siria, cuore politico e economico del Paese, potrebbe indicare la volontà di approfondire il canale di dialogo instaurato con la Russia, principale alleato di Assad, allentando le pressioni per un passo indietro dell’attuale Presidente siriano come via maestra per il raggiungimento di un accordo di pace.

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