Geopolitical Weekly n. 265

Geopolitical Weekly n. 265

Di Francesco Guastamacchia e Roberta Santagati
22.06.2017

Arabia Saudita
Il 21 giugno, il Re Salman dell’Arabia Saudita ha deciso di elevare a principe ereditario il figlio trentunenne Mohammad bin Salman, già vice nella successione al trono, rimuovendo il cinquantasettenne Muhammad bin Nayef, a lungo Ministro dell’Interno, e sollevandolo anche da qualsiasi altro incarico. La decisione del Re è stata appoggiata da 31 dei 34 membri del Consiglio di Lealtà, organismo responsabile del meccanismo di successione al trono del Regno, e dallo stesso bin Nayef, che ha inviato una lettera di approvazione al Re.
Questa scelta conferma che la successione saudita procederà per via verticale, invece del tradizionale meccanismo orizzontale per il quale il futuro sovrano veniva scelto tra i figli di Ibn-Saud. Infatti, sin dal suo incoronamento a inizio 2015, Salman aveva già deciso di designare come pretendenti esponenti della generazione dei nipoti di Ibn Saud. Con quest’ultima modifica, però, si prospetta una novità assoluta: è la prima volta che il principe ereditario è il figlio del sovrano. Quindi, oltre a essere verticale, la successione potrebbe venire ristretta al solo ramo dei discendenti di Salman.
Bin Salman, che controlla tanto la Difesa quanto l’economia del Regno, è fautore di un atteggiamento più assertivo, come dimostrato dall’ambizioso piano Vision 2030 lanciato lo scorso anno. Tuttavia, molte delle riforme proposte sono contestate dal clero wahhabita, uno dei principali alleati della famiglia Saud. Infatti, l’alleanza religiosa con i wahhabiti ha permesso alla Casa dei Saud di espandere la propria influenza nella Penisola Arabica e resta tuttora alla base della legittimità dei sovrani. Con la nomina a erede al trono, gli attriti fra bin Salman e il clero più conservatore potrebbero crescere. Tuttavia, sfruttando la fase di transizione in cui si trova il Regno, bin Salman potrebbe fare affidamento sui nuovi strumenti mediatici per rafforzare la propria legittimazione in affiancamento a quella derivante dal clero. In parallelo, il clero potrebbe osteggiare il riformismo di bin Salman facendo leva sull’inasprirsi della rivalità dei membri della famiglia reale a seguito dell’avvicendamento.
Filippine
Il 21 giugno, circa 50 combattenti appartenenti al gruppo jihadista Bangsamoro Islamic Freedom Fighters (BIFF) hanno occupato una scuola a Pigcawayan, nell’isola meridionale di Mindanao, prendendo in ostaggio 31 persone. Dopo scontri a fuoco con le Forze di sicurezza filippine, almeno 4 jihadisti sono morti e 2 poliziotti sono rimasti feriti, mentre gli ostaggi sono stati liberati. L’operazione ha avuto luogo dopo che i miliziani hanno attaccato le Forze Barangay Peacekeeping Action Team (BPAT) della polizia filippina nella vicina Barangay Malagakit.
Il BIFF è attivo nell’isola di Mandanao a partire dalla sua formazione nel 2010. Il gruppo nasce come la formazione più radicale dei gruppi separatisti del Moro Islamic Liberation Front (MILF), guidata da Ameril Umbra Kato, che si è rifiutata di intraprendere processi di pace con il Governo filippino e ha sempre visto nelle autorità centrali l’obiettivo principale dei propri attacchi.
Dopo aver giurato fedeltà al leader dello Stato Islamico (IS) al-Baghdadi nel 2014, i circa 300 combattenti del BIFF sono divenuti un braccio della struttura tentacolare che costituisce la provincia di Daesh nelle Filippine, il Battiglione dei Combattenti di Dio, formalizzata nel giugno 2016. Tale affiliazione potrebbe avere l’effetto di riunire le varie realtà secessioniste di ispirazione jihadista diffuse nel territorio già da decenni, che hanno finora mantenuto una autonomia operativa le une dalle altre, a discapito della riduzione del loro potere negoziale nei confronti delle autorità centrali. Proprio il raggiungimento dell’obiettivo separatista piuttosto che la condivisione del progetto transnazionale sembra essere l’ottica con cui i gruppi jihadisti filippini guardano all’ISIS. La funzionalità dell’affiliazione a Daesh si concretizza nella possibilità di acquisire risorse e capacità esecutive e di allargare la rete di contatti, grazie anche al ritorno di foreign fighters dai fronti iracheno e siriano. Ciò potrebbe comportare un più efficace coordinamento operativo con l’effetto di aggravare l’attuale destabilizzazione delle regioni meridionali del Paese.
L’attacco di BIFF va infatti ad inserirsi in un contesto di profonda crisi di sicurezza: non solo l’isola di Mindanao è attualmente sottoposta alla legge marziale, ma l’Esercito filippino ha richiesto l’intervento delle Forze Speciali statunitensi per la liberazione di Marawi City, capoluogo della provincia di Lanao del Sur, nella stessa isola.
Mali
Il 18 giugno, quattro uomini armati hanno preso d’assalto il residence Kangaba, situato pochi chilometri ad est dalla capitale Bamako e frequentato da esponenti dell’alta società nazionale e da cittadini stranieri, ferendo diverse persone ed uccidendone due. Le Forze Speciali anti-terrorismo maliane, supportate da unità francesi parte della missione “Barkhane”, sono prontamente intervenute ed hanno liberato 36 persone, fra cui 13 cittadini francesi e 14 locali.
L’attentato è stato rivendicato da Jama’at Nusrat al-Islam wa al-Muslimeen (Gruppo di Sostegno all’Islam e a tutti i Musulmani, GSIM), organizzazione-ombrello guidata da Iyhad ag Ghaly e nata lo scorso marzo come coordinamento della brigata “Sahara” di al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), del Fronte di Liberazione del Macina (FLM), movimento di etnia Peul/Fulani, di Ansar al-Din, referente dei clan Tuareg di Kidal e di al-Mourabitoun, formazione al comando di Mokhtar Belmokhtar, tutte realtà attive nella regione del Sahel.  
In Mali, queste avevano già singolarmente compiuto attacchi terroristici diretti a colpire cittadini europei da un lato (FLM nel gennaio 2016 all’Hotel Splendid e al ristorante Cappuccino, al-Mourabitoun nel novembre 2015 al Radisson Blu hotel), e personale delle missioni internazionali in Mali dall’altro (Ansar al-Din nel luglio 2015 ed il duplice attacco di Al-Mourabitoun nel novembre 2016).
Nello specifico, l’attacco di Kangaba è il primo  rivendicato da GSIM. Ciò potrebbe avere una funzione dimostrativa del coordinamento delle attività delle tre organizzazioni. In proposito, il ritrovamento di materiale esplosivo nel residence potrebbe indicare l’intenzione degli attentatori di provocare un’esplosione ed ampliare l’effetto distruttivo dell’attacco. Lo scambio di know-how fra i gruppi jihadisti, lo sviluppo della rete di contatti ed il conseguente coordinamento operativo potrebbe accrescere la perdurante crisi di sicurezza in mali e in tutto il Sahel.
L’alto rischio di intensificazione di attentati terroristici ha infatti condotto il Presidente del Mali Ibrahim Boubacar Keita alla decisione di prolungare dello stato di emergenza per 6 mesi lo scorso 30 aprile. Inoltre, circa 2 settimane fa, l’UE ha annunciato di voler finanziare la costituzione di una forza multinazionale dei Paesi G5 Sahel (Mauritania, Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad) formata da 10.000 unità al fine di incrementare gli sforzi regionali nel contrasto all’insorgenza jihadista.
Siria
Il 18 giugno, un F/A-18E Super Hornet statunitense della Coalizione Internazionale contro lo Stato Islamico (IS) ha abbattuto un SU-22 delle Forze siriane vicino a Tabqa, a sudovest di Raqqa. La Coalizione afferma che il velivolo siriano stesse bombardando le Forze Democratiche Siriane (SDF), affiliate alla Coalizione, mentre Damasco sostiene che il jet fosse intento in attività di bombardamento contro l’IS. Nonostante siano avvenuti contatti tra statunitensi e russi, alleati di Assad, attraverso il canale di comunicazione dedicato alla deconfliction nel teatro siriano, Damasco non avrebbe richiamato il suo velivolo. Gli USA avrebbero iniziato a rispondere agli attacchi del regime di Assad al fine di eliminare un potenziale fattore di disturbo, se non di ostacolo, nell’ambito dell’offensiva finale su Raqqa, roccaforte siriana dell’IS.
L’episodio si inserisce nel contesto delle crescenti tensioni tra il fronte lealista e gli USA, che si sono scontrati più volte nell’ultimo mese nel sud della Siria, presso il confine con l’Iraq. Mentre gli USA sono concentrati nella lotta all’IS e nel contenere l’espansione dell’influenza iraniana nella regione, Assad pare determinato a riprendere il controllo anche dei settori sud-orientali del Paese, arrivando quindi a ridosso delle aree dove operano le Forze americane e i loro alleati.
Tale moltiplicazione dei punti di attrito potrebbe innalzare il livello dello scontro e avere ripercussioni sull’offensiva di Raqqa, rallentandola. Inoltre, qualsiasi scontro diretto tra gli USA e il fronte lealista può avere un contraccolpo nel deterioramento delle relazioni tra Washington e Mosca, il principale alleato di Assad. Tuttavia, la Russia non sembra avere alcun reale incentivo a rompere il dialogo con gli americani e a permettere un’escalation. Infatti, dalla riconquista di Aleppo da parte del fronte lealista nel dicembre 2016, Russia, Turchia e Iran hanno accelerato l’azione diplomatica attraverso i negoziati di Astana, di cui Mosca è il primo promotore. La priorità russa è dunque la stabilizzazione della parte occidentale della Siria e un graduale disimpegno dal Paese. In questo senso, nuovi attriti tra Assad e gli USA non sortirebbero altro effetto se non quello di distogliere potenzialmente Mosca dal perseguimento della sua agenda. Pertanto, è possibile che il Cremlino tenti di bloccare nuove escalation agendo su Damasco e continuando a mantenere aperti i canali con Washington.

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