Geopolitical Weekly n.261

Geopolitical Weekly n.261

Di Francesco Guastamacchia e Roberta Santagati
25.05.2017

Filippine

Il 23 maggio, il Presidente filippino Rodrigo Duterte ha dichiarato la legge marziale per l’isola di Mindanao, nel sud del Paese. Le misure dureranno inizialmente 60 giorni, ma potrebbero essere estese nel caso vi fossero motivate ragioni per farlo. L’ordine presidenziale arriva a seguito di alcuni scontri a Marawi City, capoluogo della Provincia di Lanao del Sur tra le forze di sicurezza governative e i militanti pesantemente armati del gruppo Maute, gruppo separatista islamista fuoriuscito dall’esperienza del più famoso Moro Islamic Liberation Front. I militanti hanno preso possesso di alcuni edifici pubblici, hanno tenuto in ostaggio il prete e alcuni fedeli all’interno della chiesa locale e hanno preso d’assalto le due prigioni della città, liberando circa 107 detenuti. I militanti sarebbero entrati in città in soccorso di Isnilon Hapilon, già comandante di Abu Sayyaf (gruppo noto per azioni di pirateria, rapimento e decapitazione di occidentali) e, dal giugno 2016, Emiro del gruppo affiliato a Daesh nelle Filippine, il Battaglione dei Combattenti di Dio. Quest’ultimo è un gruppo ombrello che riunisce le principali realtà militanti islamiste filippine, tra cui anche il gruppo Maute. IS ha rivendicato le azioni del gruppo attraverso l’agenzia ufficiale Amaq. Se il califfato dovesse decidere di finanziare più generosamente i gruppi filippini, è possibile che il Paese registri una nuova ondata di violenze. Nonostante il provvedimento di Duterte per cercare di isolare la parte meridionale dell’arcipelago filippino, l’isolamento di Mindanao potrebbe costituire una strategia di contenimento poco efficace, poiché i gruppi, abituati a condurre operazioni di pirateria via mare, conoscono le coste dell’isola e potrebbero sfruttare insenature e baie per la fuga, di isola in isola, verso la Malesia e i la parte settentrionale dell’Indonesia.

Indonesia

Nella notte del 24 maggio due attentatori suicidi si sono fatti esplodere a distanza di pochi minuti in una stazione di autobus nel quartiere orientale Kampung Melayu di Giacarta. Tre agenti di polizia sono rimasti uccisi, mentre sei sono rimasti feriti insieme a cinque civili. Le autorità hanno collegato l’attacco al radicalismo islamico, nonostante non sia ancora giunta nessuna rivendicazione ufficiale. Il sospetto è che gli attentatori suicidi facciano parte del gruppo Jemaah Ansharud Daulah (JAD), braccio operativo del movimento ideologico jihadista Ansharud Daulah Islamiyah (ADI). Formato nel 2015 in Indonesia come cellula di Jemaah Islamiyah, il JAD è a sua volta composto da diversi gruppi estremisti che hanno giurato fedeltà ad Abu Bakral-Baghdadi e guardano con simpatia al così detto Stato Islamico (ISIS). Sarebbero circa 400 i combattenti partiti per raggiungere ISIS al fronte siriano, tra cui Bachrumsyah Mennor Usman, il leader di JAD che si occupa del trasferimento di fondi, dei viaggi e del reclutamento di combattenti provenienti dal sudest asiatico. Proprio questo canale di comunicazione potrebbe aver permesso ai jihadisti indonesiani di coordinare e perfezionare gli attentati, diretti principalmente contro forze di polizia. Nonostante guardino al Califfato, infatti, questi gruppi più che auspicare di aderire al progetto internazionale di Daesh sembrerebbero sperare di ottenerne risorse e know-how da dedicare alla lotta contro l’autorità centrale indonesiana. Il risultato dell’attacco di questa settimana, infatti, dimostra una evoluzione nel modus operandi, o meglio una coordinazione e una sofisticatezza mai dimostrata prima. Nel gennaio 2016 quattro persone erano rimaste uccise da altrettanti attentatori, ma la mancanza di organizzazione e la prontezza dell’intervento delle forze di sicurezza aveva contenuto la minaccia. Lo scorso febbraio un ordigno esplosivo del medesimo tipo dell’attentato di maggio era stato utilizzato a Bandung, ma l’azione era stata prontamente sventata. In questo contesto, ad una specializzazione esecutiva dei gruppi di insorgenza potrebbe pertanto corrispondere una minaccia crescente della sicurezza interna del Paese.

Iran

Il 19 maggio scorso, il Presidente Hassan Rouhani, candidato di punta del fronte pragmatista è stato rieletto per un secondo mandato alla Presidenza della Repubblica Islamica con il 57% dei voti, vincendo così la tornata elettorale direttamente al primo turno. Il gradimento dell’elettorato per l’operato del governo in questi quattro anni e la voglia di portare avanti il processo di apertura dell’Iran verso la Comunità Internazionale viene confermata anche dalla vittoria dei riformisti e dei moderati alle Amministrative, tenutesi in gran parte del Paese nella stessa giornata di venerdì scorso. In particolare, colpisce la vittoria dei riformisti a Teheran, roccaforte degli ultraconservatori che aveva lanciato il l’ex-Presidente Mahmud Ahmadinejad e Mahammad Bagher Ghalibaf, uno dei candidati nell’ultima tornata elettorale nazionale. Le sfide che attendono Rouhani sono principalmente due. La prima riguarda il fronte domestico ed è legata al rilancio delle politiche economiche. Rouhani dovrà cercare partner internazionali per portare investimenti e crescita nel Paese. Ciò consentirebbe di contrastare la disoccupazione, in costante aumento negli ultimi anni, e di trovare nuovi interlocutori interessati ad instaurare un proficuo rapporto bilaterale con Teheran, soprattutto in Europa. La seconda, ma non meno importante, priorità per il governo iraniano nei prossimi anni sarà gestire il complicato rapporto con gli Stati Uniti e con le Monarchie sunnite del Golfo.  Infatti, in un momento in cui la Casa Bianca sta spalancando le porte ad un rinnovo dei rapporti con i Paesi della Penisola Arabica, in primis con l’Arabia Saudita, il governo di Teheran si trova a prendere le misure per tutelare i propri interessi internazionali e nella regione. A fronte della narrativa antagonistica che il Presidente Trump sembra aver ripreso nei confronti dell’Iran,  resta incerto se Rouhani cercherà di abbassare i toni con la neo-insediata Amministrazione Trump e di trovare dei punti di convergenza per normalizzare le relazioni bilaterali. La volontà di ottenere il sollevamento delle ultime sanzioni rimaste , così come previsto dall’accordo sul nucleare firmato nell’estate 2015, dovrà però essere bilanciato con l’interesse delle autorità iraniane di continuare ad avere una capacità di penetrazione nella regione, per influenzare gli equilibri in Medio Oriente.

Nigeria

Il 22 maggio, 55 persone sono state arrestate a margine di diverse manifestazioni negli Stati federali di Enugu e Bayelsa, nel sud-est del Paese. Nel motivare le ragioni dell’arresto, le forze dell’ordine hanno dichiarato che pur non essendo violenti, i partecipanti potevano minacciare l’ordine pubblico. I manifestanti si erano riuniti in occasione della celebrazione del giorno dell’indipendenza del Biafra, organizzata dal Biafra Independence Movement (BIM). Il gruppo nasce come costola del Movement for the Actualization of the Sovereign State of Biafra (MASSOB), il quale, insieme all’Indigenous People of Biafra (IPOB), porta avanti la lotta separatista del Biafra in Nigeria. L’agenda separatista dei movimenti popolari delle regioni sud-orientali del Paese racchiude al proprio interno la commistione di fattori etnici, economici e politici. Infatti, i territori in questione sono popolati dalle etnie di religione cristiana Igbo e Ijaw, tradizionalmente marginalizzate all’interno degli equilibri di potere nigeriani, dominati dall’egemonia diarchica dei cristiani Yoruba e degli islamici Hausa-Fulani. Tale subordinazione risulta ancor più pesante se si considera che gli Stati del sud-est sono i maggiori produttori di petrolio del Paese, contribuendo ad una porzione fondamentale della ricchezza nazionale e subendo le esternalità negative dello sfruttamento idrocarburico (inquinamento cronico, diminuzione delle terre coltivabili e delle risorse ittiche). Inoltre, la disomogeneità nelle politiche di redistribuzione degli introiti petroliferi e il profondo sottosviluppo della regione costituiscono ulteriori elementi di radicalizzazione del malcontento sociale. La soddisfazione delle esigenze dei popoli Igbo e Ijaw non sembrano essere soddisfatte dal nuovo piano governativo di ricostruzione economica e crescita, destinato più all’arricchimento delle compagnie che gestiscono il settore petrolifero che al rilancio delle condizioni di vita dei locali. Infatti, a fianco dell’aumento della produzione di petrolio e dell’impulso dato al settore privato attraverso la ristrutturazione delle raffinerie locali, non sono previsti benefici per la popolazione del luogo. In un simile contesto, il malcontento potrebbe essere aggravato dall’atteggiamento ostile del governo verso le manifestazioni popolari. Dietro l’invocazione della necessità di mantenere la sicurezza e l’ordine pubblico, l’intervento della polizia potrebbe nascondere una violazione del diritto a manifestare. L’esercizio di questo diritto acquista infatti una valenza politica in quanto attiene ad istanze separatiste, soprattutto in funzione proselitista. Vi è pertanto il rischio che le ostilità si accrescano, sebbene i gruppi in questione siano rimasti estranei alla escalation di violenze e di attentati eco-terroristici che ha caratterizzato la regione a partire dagli anni 2000, perpetrati dal Movimento per l’Emancipazione del Niger Delta (MEND) prima e dai Niger Delta Avengers (NDA) successivamente. In più, il fresco rilascio del leader dell’IPOB Nnamdi Kanu, detenuto da due anni con l’accusa di partecipazione ad associazione a delinquere, potrebbe rianimare l’attivismo del gruppo, soprattutto in previsione della manifestazione organizzata per il prossimo 30 maggio da MASSOB e IPOB, in occasione della celebrazione del 50esimo anniversario della Dichiarazione del Biafra.

Regno Unito

Il 22 maggio, Salman Abedi, cittadino britannico di origini libiche, si è fatto esplodere all’ingresso della Manchester Arena provocando la morte di 22 persone e il ferimento di altre 120, tra cui molti bambini ed adolescenti. Infatti, l’attentato è avvenuto al termine del concerto di Ariana Grande, cantante con un grande seguito tra il pubblico adolescente, quando migliaia di spettatori stavano lasciando la struttura. In particolare, l’attacco nell’area compresa tra i cancelli dell’Arena e gli accessi ai parcheggi e alla locale Victoria Station, dove c’era una maggiore concentrazione di persone. La dinamica dell’accaduto ricorda l’attacco allo Stade de France di Parigi (novembre 2015), quando un nucleo di terroristi aveva come obiettivo il deflusso dei tifosi dallo stadio. L’attentato di Manchester è stato rivendicato dallo Stato Islamico (IS o Daesh) ed indicato come rappresaglia per la politica estera e l’impegno militare britannico in Siria ed Iraq. In un momento in cui Daesh si trova ad affrontare una profonda crisi finanziaria e militare in Medio Oriente, gli attentati in Europa assumono un valore simbolico oltre che militare, volto a sottolineare le resilienza del Califfato nonostante gli sforzi della Comunità Internazionale. Per il Paese si tratta del più sanguinoso attentato terroristico dal 7 luglio del 2005, quando una serie di attacchi coordinati colpì Londra, provocando la morte di 56 persone. Circa due mesi fa la capitale britannica era stata oggetto di un altro attacco, quando un attentatore a bordo di un SUV prima aveva falciato i passanti lungo Bridge Street e successivamente aveva cercato di penetrare all’interno del Palazzo di Westminster. In quell’occasione erano state uccise 5 persone. Le modalità dell’attentato di Manchester (utilizzo di un attentatore suicida e di un ordigno complesso) permettono di confermare l’esistenza di una filiera jihadista molto strutturata nel Paese, tale da garantire una elevata capacità logistica, una rete ramificata di reclutamento ed indottrinamento ed una consistente qualità nel processo di radicalizzazione. A questo proposito, occorre ricordare che dal Regno Unito sono  partiti circa 800 foreign fighters per arruolarsi nelle fila del Califfato in Siria ed Iraq, di cui circa 380 hanno fatto ritorno in patria. In risposta a quanto accaduto, il governo di Theresa May ha deciso di innalzare il livello di allerta ed avviare l’operazione Temperer, ossia il dispiegamento di circa 3800 militari per aumentare il presidio e la protezione dei luoghi sensibili del Paese.

Thailandia

Il 22 maggio a Bangkok l’esplosione di una bomba ha ferito 25 persone all’interno di un ospedale militare. Gli investigatori affermano che la dinamica dell’incidente possa essere collegata ad altri due casi simili, uno fuori dal Teatro Nazionale di Bangkok la settimana scorso ed un’altra bomba lasciata in un cestino della capitale, ad aprile. In entrambi i casi, l’ordigno aveva un potenziale esplosivo troppo basso per provocare seri danni. L’episodio è avvenuto il giorno in cui  si celebrava il terzo anniversario del colpo di Stato effettuato dall’Esercito nel maggio 2017, ai danni dell’allora Primo Ministro Yingluck Shinawatra. Il gesto sovversivo, dunque, potrebbe avere avuto una motivazione simbolica ed essere riconducibile alla frangia di sostenitori della  Shinawatra e del fratello, Thaksin, anch’egli ex Primo Ministro (2001-2006) deposto in seguito ad un colpo di mano delle Forze Armate. I due fratelli, infatti, hanno sempre portato avanti un’agenda fortemente populista per raccogliere consensi nell’ampio bacino elettorale delle classi rurali del nord, a discapito però delle classi medie e borghesi della parte meridionale, più conservatrici e vicini sia alle élite militari che alla Casa Reale. L’attentato sembra dunque rientrare nel contesto di diffuso malcontento generale seguito all’insediamento al potere della giunta militare, chiamata Consiglio per la Pace e l’Ordine Nazionale (CPON), ed amplificatosi con l’aumento dei casi di censura dei media e di controllo dell’attività politica da parte del CPON, guidata dall’allora Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e stratega del golpe, Prayuth Chanocha. In questo contesto, le ostilità potrebbero inasprirsi ulteriormente a seguito dell’adozione della nuova Costituzione thailandese, approvata il 6 aprile dal Re Maha Vajiralongkorn, succeduto al trono lo scorso ottobre, dopo i 70 anni di potere del padre Bhumibol Adulyadej. Il nuovo impianto statale, infatti, riflettendo lo storico legame fra la Monarchia e l’Esercito, sembra essere pensato per assicurare il vincolo del potere politico a quello dei militari e dunque scongiurare così ogni tentativo di affrancamento del governo dall’influenza dei militari, circostanza che ha, di fatto, portato ai sopracitati golpe del 2014 e del 2006. Ciò sembra andare a discapito in primo luogo della rappresentatività popolare, attraverso l’introduzione di un Senato non-elettivo, al quale prenderanno parte rappresentanti delle Forze Armate, una riforma elettorale che va a discapito dei partiti di piccole-medie elezioni, e la possibilità che le due camere dell’Assemblea Legislativa scelgano come Primo Ministro un membro esterno al Parlamento. Inoltre, dovrebbe essere introdotta l’immunità per i membri del CPON da ogni azione giudiziaria relativa ai fatti commessi dal momento dell’ascesa al potere.

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