Geopolitical Weekly n.253

Geopolitical Weekly n.253

Di Monica Esposito
30.03.2017

Repubblica Democratica del Congo

Lo scorso 28 marzo, nella capitale Kinshasa, la polizia ha disperso violentemente le proteste di centinaia di sostenitori dell’Unione per la Democrazia e il Progresso (UDPS), principale partito di opposizione al governo del Presidente Kabila. Le tensioni sono scoppiate a seguito dell’annuncio del fallimento dei colloqui tra l’opposizione e Capo dello Stato. Quest’ultimo non sembra, infatti, disposto ad applicare le condizioni dell’accordo di coabitazione stipulato, lo scorso 31 dicembre, con le forze di opposizione, guidate allora da Etienne Thsisekedi. L’accordo avrebbe lo scopo di risolvere l’impasse istituzionale, causata dalla perdurante reticenza del Presidente Kabila a cedere il potere e indire nuove elezioni nonostante il suo secondo e ultimo mandato sia scaduto lo scorso 19 dicembre. L’accordo prevede che Kabila rimanga al potere fino a prossime elezioni previste per la fine del 2017, a patto però che sia affiancato da un Primo Ministro membro dell’opposizione e da un consiglio di transizione. La mancata volontà di Kabila di accettare il compromesso getta ulteriormente il Paese nel caos politico e istituzionale e contribuisce a infiammare i gruppi di miliziani che si oppongono al governo centrale e all’agenda politica personalistica, nepotistica e accentratrice del Presidente. Tra questi gruppi di opposizione c’è Kamwina Nsapu, che prende il nome dal suo leader, nota autorità tribale. Promotore di un progetto federalista per il Paese, Kamwina Nsapu agisce nella regione centrale del Kasai, dove ha creato un clima di forte tensione. Proprio il 26 marzo scorso, il gruppo di miliziani ha teso un’imboscata a due veicoli della Polizia Nazionale Congolese (PNC) e ucciso le circa 40 poliziotti che si trovavano all’interno e rubato le loro armi e munizioni. Inoltre, non è da escludere che Kamwina Nspau sia anche responsabile del sequestro e dell’uccisione dei due tecnici dell’ONU e del loro interprete congolese, scomparsi il 12 marzo e ritrovati morti lunedì scorso vicino al fiume Moyo.

Egitto

Lo scorso 25 marzo, l’ex Presidente Hosni Mubarak, costretto a dimettersi dopo la Rivoluzione di Piazza Tahrir del 2011, ha potuto lasciare l’ospedale militare di Maadi, nel sud del Cairo, dopo sei anni di reclusione, ed è tornato nella sua residenza a Heliopolis. Mubarak era stato destituito dopo 18 giorni di proteste tra il 25 gennaio e l’11 febbraio 2011, e aveva consegnato il potere nelle mani del Consiglio Militare Supremo delle Forze Armate. Pochi mesi dopo, l’ormai ex-Presidente era stato accusato di omicidio per aver represso violentemente le proteste, provocando la morte di centinaia di manifestanti. Il 2 giugno 2011, Mubarak, giudicato colpevole, era stato condannato all’ergastolo e, da allora, ha trascorso sei anni quasi interamente nell’ospedale militare di Maadi sotto stretta sorveglianza. Già nel novembre 2014, la Corte di Cassazione aveva archiviato il caso, e solo lo scorso 2 marzo aveva confermato l’assoluzione in primo grado. Nel frattempo, la riapertura di una vecchia inchiesta per delle accuse di corruzione aveva provocato un rallentamento dell’iter di scarcerazione dell’ex Presidente. Quando lo scorso 13 marzo, anche l’ultimo processo a carico di Mubarak è stato risolto, si è finalmente potuto porre fine alla sua detenzione. Hosni Mubarak ha guidato l’Egitto per 29 anni dal 1981, succedendo al Presidente Sadat, di cui era vice-Presidente. Con la sua esautorazione, l’Egitto aveva avviato una fase di democratizzazione della vita politica culminata con  le prime elezioni libere e le vittoria di Mohamed Morsi, leader dei Fratelli Musulmani. Quest’ultimo, a sua volta, è stato costretto a lasciare il potere nel 2013 a causa di un colpo di Stato per mano dell’Esercito. Da allora, l’attuale Presidente, il Generale Abdel al-Fatah al-Sisi, sembra aver raccolto l’eredità del modello politico autocratico di Mubarak. In questo senso, l’assoluzione e la liberazione di Mubarak potrebbero essere sintomatiche della volontà di riabilitare e forse reintegrare della leadership politica precedente alla Rivoluzione del 2011. Negli ultimi anni, infatti, diversi membri dell’entourage di Mubarak erano stati assolti dalle diverse accuse di frode o di corruzione. La rinnovata libertà dell’ex Presidente potrebbe, tuttavia, esacerbare il malcontento della generazione che ha partecipato alle proteste di Piazza Tahrir, la cui situazione è già aggravata dalla profonda crisi economica.

Hong Kong

Lo scorso 26 marzo è stato eletto il nuovo Capo Esecutivo di Hong Kong, Carrie Lam, ex vice dell’amministrazione dell’uscente Leung Chun-Ying. Sostenuta dal Partito Comunista di Pechino, Carrie Lam ha ottenuto 777 voti dalla Commissione elettorale, battendo John Tsang, Segretario Finanziario di Hong Kong e l’ex giudice Woo Kwok-hing, che hanno ottenuto rispettivamente 365 voti e 21 voti. Già braccio destro dell’uscente Governatore, Leung Chun-Ying, Lam negli ultimi mesi è stata considerata il candidato favorito per la vittoria e, soprattutto, la più vicina al governo centrale di Pechino. La vittoria del nuovo Capo Esecutivo, che inizierà il suo mandato quinquennale il prossimo 1 Luglio, riaccende ancora una volta l’attenzione sulla forte influenza esercitata dal Partito Comunista cinese nella regione amministrativa speciale di Hong Kong. Tale ingerenza è favorita dallo stesso sistema elettorale che regola la nomina del vertice politico della Provincia autonoma. Infatti, il Capo Esecutivo della regione viene eletto da una Commissione elettorale formata da 1,200 membri, ivi compresi 70 membri del Consiglio Legislativo della città, alcuni rappresentati dei distretti amministrativi ed esponenti del mondo imprenditoriale, accademico e culturale legati alle autorità centrali cinesi. L’influenza cinese nelle elezioni locali è stata al centro delle proteste che hanno scosso Hong Kong negli ultimi tre anni, conosciute con il nome di “Rivoluzione degli Ombrelli”. Nel 2014, infatti, decine di migliaia di persone, soprattutto studenti, sono scesi in piazza per protestare contro la proposta di Pechino di introdurre una riforma che consentisse di fatto alla leadership centrale di scegliere i candidati eleggibili dalla popolazione honkonghese attraverso suffragio universale. In quell’occasione i manifestanti recriminavano a Pechino di disattendere l’accordo raggiungo nel 2007, che avrebbe dovuto garantire elezioni libere e generali entro il 2017. Le proteste, che puntavano ad istituire un sistema elettorale a suffragio elettorale proprio per le consultazioni avvenute quest’anno, furono inconcludenti e lasciarono il potere elettivo alla sola Commissione elettorale. La neo-eletta Lam, che nel 2014 si era apertamente schierata a favore dell’iniziativa di Pechino, ha già dichiarato che non si occuperà né della controversa riforma elettorale né dell’implementazione del suffragio universale, punto che sembra destinato a rimanere un tasto fondamentale nella politica di Hong Kong per i prossimi anni e che potrebbe riaccendere le tensioni tra il governo locale e i leader dei movimenti di opposizione. Hong Kong, ex colonia inglese, rispetta il principio costituzionale di “un Paese, due sistemi”, dal 1997 quando ritornò alla Repubblica Popolare Cinese. La città gode di un limitato auto-governo e di libertà civili, mentre Pechino si occupa della sua difesa, degli affari esteri e ha anche il potere di emendare la Basic Law. Attraverso il controllo del sistema elettorale, la Cina riesce a mantenere forte la sua influenza, mentre a Hong Kong il panorama politico si fa sempre più diviso.

Russia

Lo scorso 26 marzo, numerose proteste anti-governative hanno avuto luogo a Mosca e in altre numerose città del Paese (Vladivostok, Perm, Tomsk) per chiedere le dimissioni del Primo Ministro Dmitrij Medvedev. Si tratta delle manifestazioni più significative dal 2011-2012, quando la popolazione della capitale era scesa in piazza prima per protestare contro la ri-candidatura di Vladimir Putin alla presidenza della Federazione e dopo le elezioni per contestare presunti brogli ai danni dei partiti di opposizione. Ad incoraggiare e guidare la nuova ondata di proteste è stato Alexei Navalny, noto attivista politico e tra i leader del movimento di opposizione Partito del Progresso, nonché fondatore dell’organizzazione non-governativa Anti-Corruption Foundation. Navalny, che è solito utilizzare canali online per perorare la causa della lotta alla corruzione, il 2 marzo aveva pubblicato su Youtube un film-documentario dove accusava il Primo Ministro Medvedev di aver accumulato un’ingente fortuna (circa 1.2 miliardi di dollari) in beni immobili di lusso attraverso una rete poco trasparente di organizzazioni no-profit finanziata attraverso ingenti donazioni da parte dei principali oligarchi. A differenza di quanto accaduto in altre città russe, a Mosca le autorità avevano proibito la protesta per ragioni di ordine pubblico. Ciononostante, Navalny ha invitato la cittadinanza a scendere in piazza individualmente al fine di aggirare i divieti imposti dalle autorità. Tuttavia, una volta radunati, i manifestanti sono stati dispersi o arrestati dalla polizia. Lo stesso Navalny è stato condannato a 15 giorni di reclusione. La proteste del 26 marzo permettono di comprendere il serpeggiante malcontento della popolazione russa nei confronti dell’establishment politico nazionale, accusato di appropriazione indebita della ricchezza dello Stato, di inefficienza e di disinteresse nei confronti delle esigenze del popolo. Ad erodere il sostegno dei russi verso l’apparato di potere hanno contribuito diversi elementi, tra i quali la crisi economica che si protrae dal 2014 a causa del crollo dei prezzi del petrolio e della guerra delle sanzioni con Europa e Stati Uniti a seguito della crisi ucraina e dall’annessione russa della Crimea. La diminuzione dello standard di vita ha affetto la fiducia dei russi verso la leadership dello Stato, adesso chiamato ad una risposta politica sia di breve periodo (rimpasto di governo) che di lungo periodo (profonde riforme sistemiche). A pensare ulteriormente sulla capacità del Cremlino di risanare le proprie finanze e ripristinare i livelli di welfare precedenti al 2014 è la scarsa differenziazione del proprio apparato produttivo, eccessivamente legato all’industria idrocarburica e degli armamenti, e le spese per l’impegno militare in Donbas e Siria. Anche se al momento non esiste una personalità o una forza politica in grado di rivaleggiare con il partito di potere Russia Unita e soprattutto con il Presidente Vladimir Putin, non è da escludere che un ulteriore prolungamento della stagnazione economica possa alimentare il malcontento e diffondere instabilità sociale in tutto il Paese.

Articoli simili