Geopolitical Weekly n.251

Geopolitical Weekly n.251

Di Monica Esposito
16.03.2017

India
L’11 marzo sono stati resi noti i risultati delle elezioni, iniziate lo scorso febbraio e concluse l’8 marzo, per il rinnovo delle assemblee legislative in cinque stati dell’Unione Indiana, Uttar Pradesh, Punjab, Goa, Manipur e Uttarakhand. Il Partito di governo Bharatiya Janata Party (BJP) del Primo Ministro Narendra Modi, nazionalista e difensore dell’identità induista, ha registrato una significativa vittoria in Uttar Pradesh, lo stato più popoloso dell’Unione Indiana (circa 220 milioni di abitanti), dove è riuscito ad ottenere 312 dei 403 seggi in assemblea.
Si tratta della maggioranza più significativa per un partito indiano mai registrata in Uttar Pradesh dal 1980. Già durante le elezioni generali del 2014 il BJP aveva ottenuto il 42% di voti in questo stesso Stato.
Il BJP ha guadagnato inoltre circa 47 seggi su 70 in Uttarakhand e ha tolto, in questo modo, un importante bacino di voti al maggiore partito di opposizione, il Partito del Congresso di Rahul Ghandi. Quest’ultimo, sebbene sia riuscito ad ottenere la maggioranza nel Punjab, non ha tuttavia un sufficiente numero di voti tale da controbilanciare il BJP a livello nazionale.
Le elezioni in Uttar Pradesh hanno rappresentato una prova del grado di approvazione di Narendra Modi soprattutto in seguito alla sua controversa riforma economica. In novembre, infatti, per contrastare l’evasione fiscale, il Primo Ministro aveva deciso di ritirare dalla circolazione le banconote di taglio più grande (da 500 a 1.000 rupie), che rappresentano circa l’84% del contante nel Paese. Tale scelta politica ha causato disagi alle attività commerciali tanto da scatenare diverse proteste e da rallentare l’economia del Paese.
Ciononostante, il successo registrato dal BJP, forte della sua retorica nazionalista, potrebbe permettere a Modi di riconfermarsi per il suo secondo mandato come Primo Ministro in vista delle elezioni generali che si terranno nel 2019.

Siria
Nella giornata di sabato 11 marzo un duplice attentato ha colpito la città di Damasco. Secondo le prime stime, i morti sarebbero più di 40 e i feriti oltre 120. Gli attacchi hanno avuto luogo nella zona del cimitero di Bab al-Saghir, vicino ad una delle sette porte della Città Vecchia.
Una bomba è dapprima esplosa presso la stazione degli autobus, mentre un attentatore suicida si è fatto esplodere nello stesso luogo pochi minuti dopo, colpendo anche i primi soccorritori che erano giunti sul posto. Tra le vittime ci sarebbero molti iracheni che erano in visita ai mausolei della zona. L’area vicino al cimitero di Bab al-Saghir è infatti nota per la presenza di diversi mausolei sciiti che sono meta di pellegrinaggio da parte di molti fedeli. L’ipotesi che l’obiettivo dell’attacco fossero proprio i pellegrini sciiti sarebbe confermata dal gruppo che ha rivendicato l’attentato: Hayat Tahrir al-Sham, organizzazione nata alla fine dello scorso gennaio dalla fusione di Jabhat Fateh al-Sham (ex Jabhat al-Nusra) con altri quattro gruppi jihadisti e legata ad al-Qaeda. Il gruppo ha dichiarato di aver voluto lanciare un messaggio all’Iran, Paese a grande maggioranza sciita e sostenitore del Presidente siriano Bashar al-Assad. Proprio il governo siriano controlla quasi l’intera superficie della capitale, con ancora pochi distretti periferici in mano alle forze ribelli. Se dunque gli attacchi da parte dei sunniti nei confronti degli sciiti non sono rari in Siria, meno frequenti sono gli attentati a Damasco, proprio perché quasi interamente sotto il controllo delle forze fedeli al regime. L’azione del gruppo terrorista dimostra come lo stato di tensione rimanga alto in tutto il Paese, anche dove le forze di Assad sembrano avere il pieno controllo del territorio, e come le prospettive di un ritorno, seppur parziale, alla normalità prospettato dal Presidente siriano siano in realtà molto lontane dal potersi a tutti gli effetti concretizzare.

Somalia
Il 13 marzo, una serie di attentati terroristici si sono susseguiti a Mogadiscio. Un’autobomba ha colpito l’Hotel Weheliye, in una strada particolarmente trafficata della città, provocando la morte di almeno sei persone, mentre un attentatore suicida alla guida di un minibus si è fatto esplodere nei pressi di un checkpoint della polizia dopo che gli agenti avevano aperto il fuoco in seguito al suo rifiuto di fermarsi per controlli di routine. Gli attacchi non sono stati ancora rivendicati ma è probabile escludere che la responsabilità sia da attribuire ad al-Shabaab, formazione jihadista affiliata ad al-Qaeda e attiva nel Paese dal 2006.
Si tratta del secondo attentato di matrice jihadista perpetrato dopo l’elezione del nuovo Presidente Mohamed Abdullahi Mohamed “Farmajo”, avvenuta lo scorso 8 febbraio. Infatti, Il 19 febbraio, un’altra autobomba scoppiata nel quartiere Madina della capitale aveva provocato circa 40 morti. Appare evidente come lo scopo di al-Shabaab sia quello di ostacolare il processo di stabilizzazione nazionale, minare alle basi l’amministrazione di Mohamed e dimostrare la sua perdurante pericolosità nonostante le gravi difficoltà incontrate a causa della positiva campagna contro-terrorismo svolta dal governo e dall’Unione Africana.
Nonostante la missione dell’Unione Africana AMISOM (African Union Mission in Somalia) nel 2011 abbia espulso al-Shabaab da Mogadiscio e lo abbia privato di importanti avamposti in tutto il Paese, il gruppo filo-qaedista controlla ancora alcune regioni centrali e meridionali.
L’anno scorso il perpetrarsi degli attacchi terroristici aveva provocato i numerosi rinvii delle elezioni presidenziali, previste inizialmente per settembre 2016 e avvenute poi lo scorso febbraio. Attualmente, la resilienza di al-Shabaab rappresenta una delle criticità maggiori per la Presidenza di Farmajo, la cui agenda politica include l’opera di state building e di ricostruzione delle istituzioni statali. La neutralizzazione di al-Shabaab è, pertanto, una conditio sine qua non per perseguire gli obiettivi di pacificazione e di stabilizzazione.

Somalia 2
Il 14 marzo la nave cargo ARIS-13, partita da Gibuti e diretta a Mogadiscio, con a bordo un equipaggio di 8 cingalesi, è stata sequestrata da una banda di pirati nel tratto di mare tra la costa somala e l’isola yemenita di Socotra per poi essere ormeggiata nel porto di Alula, nello Stato Federale del Puntland. La nave, che trasportava benzina, appartiene a una compagnia gestita dagli Emirati Arabi Uniti e batteva bandiera delle isole Comore.
A distanza di tre giorni e dopo aver respinto i tentativi di assalto della Puntland Maritime Police Force (PMPF), i pirati hanno rilasciato l’equipaggio e l’imbarcazione senza chiedere alcun riscatto. In questo senso, è stata decisiva la mediazione dei leader clanici locali e soprattutto il ruolo della cordata di imprenditori somali che aveva organizzato il viaggio delle nave. Infatti, com’è noto, i pirati sono tradizionalmente avversi ad entrare in contrasto con i potenti uomini d’affari somali.
Era dal 2012 che i pirati non sequestravano una nave cargo. L’attività di pirateria somala, iniziata nel 2005 con l’attacco alla nave MV Feist Gas, si è poi intensificata negli anni successivi e ha raggiunto il suo picco nel 2011, quando vennero compiuti 237 attacchi. Nel 2012, il costo della pirateria per l’economia globale ammontava a circa 7 miliardi di dollari, se sommati le cifre utilizzate per pagare i riscatti, il costo delle operazioni di contro-pirateria, il costo delle polizze assicurative sulle navi cargo che attraversavano il Golfo di Aden e i costi per l’incremento del consumo di carburante a causa della percorrenza di rotte più lunghe per evitare la costa somala.
Una serie di misure adottate dalle compagnie armatoriali, come l’imbraco di guardie armate a bordo delle navi, e degli Stati, come le missioni di contro-pirateria dell’Unione Europea e della NATO, hanno contribuito a limitare gli attacchi, che nel 2016 hanno registrato la loro più consistente diminuzione. Tuttavia, i pirati hanno continuato a sequestrare imbarcazioni minori, soprattutto i pescherecci iraniani che si avventuravano nelle acque territoriali somale per la pesca di frodo.
Tuttavia, a cominciare da novembre, con la fine della missione anti-pirateria della NATO, le capacità di pattugliamento e deterrenza delle forze internazionali è sensibilmente diminuita, incentivando le bande di pirati a ricominciare le proprie attività, come il caso della ARIS 13 drammaticamente testimonia.

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