Geopolitical Weekly n.247

Geopolitical Weekly n.247

Di Monica Esposito
16.02.2017

Corea del Nord
Nel weekend tra l’11 e il 12 Febbraio, la Corea del Nord ha condotto un test balistico nel Mar del Giappone, in violazione alle Risoluzioni delle Nazioni Unite adottate negli ultimi dieci anni dal Consiglio di Sicurezza per scongiurare l’acquisizione di una capacità atomica militare da parte del regime di Pyongyang. Il missile, lanciato da un sito a nordovest di Pyongyang (nei pressi della città di Kusong), ha percorso 500 km verso la costa giapponese prima di cadere in mare. Si tratta del primo test militare condotto dal regime nord-coreano da quando Trump si è insediato alla Casa Bianca. Giunto in un momento in cui il Primo Ministro giapponese si trovava in visita a Washington, il test sembra essere stata una dimostrazione di forza per cercare di valutare quale potrebbe essere la posizione del nuovo Presidente statunitense, Donald Trump, rispetto alle dinamiche di sicurezza nel nordest Asia.
Giappone, Sud Corea e Stati Uniti hanno convocato di urgenza il Consiglio di Sicurezza dell’ONU per discutere l’incidente. Nonostante la condanna contro la Nord Corea sia stata unanime, il Consiglio di Sicurezza non ha preso posizioni concrete. Questo potrebbe essere stato causato dalle attuali tensioni diplomatiche tra Cina e Stati Uniti. La decisione di non procedere con nuove sanzioni potrebbe essere stata dettata da una più rigida posizione della Cina al tavolo negoziale. In particolare, due fattori potrebbero aver determinato l’impasse. Da una parte il raffreddamento dei rapporti tra Washington e Pechino in seguito all’insediamento di Trump: nonostante la telefonata tra i due Capi di Stato dello scorso 10 febbraio, infatti, i toni duri utilizzati dal nuovo Presidente statunitense dal suo ingresso alla Casa Bianca hanno di fatto irrigidito i rapporti bilaterali. Dall’altra, le attuali tensioni tra il governo di Pechino e la Corea del Sud, insorte a causa della richiesta da parte di Seoul all’alleato statunitense di installare sul proprio territorio nazionale il sistema anti-missilistico THAAD (Terminal High Altitude Area Defense-Difesa d’aria terminale ad alta quota), in funzione anti-nordcoreana. Pechino teme, infatti, che il potente sistema di radar utilizzato dal THAAD, possa interferire con il proprio sistema di sicurezza.
Come già dimostrato l’anno scorso, in seguito al lancio di un altro missile da parte del regime nordcoreano nei primi mesi del 2016, infatti, il consenso della Cina è fondamentale non solo per trovare un accordo sulle disposizioni sanzionatorie contro Pyongyang ma soprattutto per renderle davvero efficaci. In un momento in cui la minaccia rappresentata dal programma balistico e nucleare nordcoreano appare sempre più concreta, la persistenza delle tensioni tra gli attori regionali potrebbe immobilizzare la già complicata trattativa per trovare una soluzione congiunta alla questione nordcoreana, con ovvie ripercussioni sulle condizioni di sicurezza in tutta la regione.

Palestina

Lo scorso 13 febbraio, il Comitato Esecutivo di Hamas ha eletto come nuovo leader del movimento a Gaza Yahya Sinwar, uomo forte all’interno delle brigate Ezzedin al-Qassam, braccio armato dell’organizzazione.
Nato del campo profughi di Khan Younis ed Ex comandante del Munazzamat al Jihad wal-Dawa, (apparato di sicurezza del movimento avente il compito di individuare eventuali collaboratori palestinesi con le autorità israeliane), nel 1989 Sinwar è stato arrestato e condannato all’ergastolo per l’omicidio di un soldato israeliano. Dopo 22 anni trascorsi in carcere, nel 2011 Sinwar è stato liberato nell’ambito di uno scambio di prigionieri per il rilascio del militare israeliano Gilaad Shalit. Da quel momento il nuovo leader ha rappresentato uno degli esponenti di punta dell’ala dei “falchi” delle brigate di al-Qassam, ponendosi in maniera estremamente critica nei confronti dell’operato del braccio politico del movimento e ritagliandosi uno spazio di azione sempre più autonomo.
La sua elezione alla guida di Hamas a Gaza rappresenta quindi un segnale evidente del definitivo rafforzamento dell’ala militare del gruppo rispetto a quella politica. Quest’ultima, infatti, ha visto negli ultimi anni un progressivo indebolimento della sua leadership all’interno della Striscia di Gaza derivante soprattutto dall’impossibilità di far fronte al forte deterioramento delle condizioni economiche e di sicurezza di questi territori. Dunque, con molta probabilità, la scelta di Sinwar appare essere funzionale alla volontà del movimento di recuperare il terreno perso a favore di altri gruppi salafiti presenti nell’area, quali la Jihad Islamica Palestinese, anche attraverso l’assunzione di una retorica e di un modus operandi molto più violenti nei confronti della controparte israeliana. Quindi, in un momento di già forte polarizzazione delle posizioni dei vari attori coinvolti nel dossier israelo-palestinese il cambio al vertice di Hamas a Gaza potrebbe rappresentare un ulteriore elemento di destabilizzazione nell’evoluzione di tale scenario.

Libia

Nei giorni tra i 14 ed il 15 febbraio, il Premier del Consiglio Presidenziale (CP) Fayez al-Serraj e il comandante dell’ autoproclamato Esercito Nazionale Libico, il Generale Khalifa Haftar, si sono incontrati al Cairo in occasione di un meeting organizzato dal Presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sisi per cercare di mediare tra le parti in conflitto in Libia.
Inizialmente le parti hanno avuto un colloquio separato con il Capo di Stato Maggiore egiziano, il Generale Mahmoud Hejazi. A questi sarebbe dovuto seguire l’incontro diretto tra i due leader libici che però sembrerebbe non aver avuto luogo a causa dell’indisponibilità manifestata dal Generale Haftar.
Ciò nonostante, attraverso una serie di colloqui indiretti mediati da esponenti del governo e della diplomazia egiziana, le due delegazioni sono riuscite a convergere su alcuni punti tra i quali l’indizione delle elezioni parlamentari e presidenziali entro il febbraio del 2018, la costituzione di un comitato incaricato di tracciare una roadmap per la transizione politica del Paese e la necessità di emendare alcune clausole previste dagli accordi di Skhirat (dicembre 2015). Inoltre, sembrerebbe che il Premier Serraj abbia proposto la formazione di un nuovo governo, con il Generale Haftar capo di un Consiglio Militare Unificato, composto da tre personalità indicate rispettivamente dalla Camera dei Rappresentanti, dal Consiglio Presidenziale e dal Consiglio di Stato.
Nonostante i risultati raggiunti al Cairo rappresentino un piccolo, passo in avanti sul piano diplomatico, diverse sono le criticità che permangono e che potrebbero ostacolare ancora una volta l’inizio di un processo di reale pacificazione e di stabilizzazione del Paese. Infatti, sebbene la quadratura raggiuta a Il Cairo veda la partecipazione dei due principali attori del panorama politico e militare libico non è affatto scontato che Serraj e Haftar riescano a far accettare tali accordi a tutti gli altri politici e militari che continuano ad avere un ruolo all’interno del Paese.

Repubblica Democratica del Congo

Il 13 febbraio, nella capitale Kinshasa, la polizia ha effettuato un blitz per neutralizzare la rete e le strutture logistiche del movimento politico-religioso di opposizione Bundu Dia Kongo (BDK), capeggiato dall’attivista / santone Ne Mwanda Nsemi, uno dei più grandi avversari del Presidente congolese Joseph Kabila. Nel corso degli scontri tra le forze governative e i militanti del BDK sono morte circa 4 persone.
Nelle stesse ore degli incidenti di Kinshasa, nella regione del Kasai occidentale, l’Esercito congolese si scontrava con i miliziani di Kamwina Nsapu, altro movimento di opposizione al governo centrale che trae il proprio nome dal suo leader, nota autorità tribale locale. In questo caso, la violenza del confronto è stata ancora più intensa e ha causato la morte di oltre 100 persone.
Ad accomunare il BDK e il Kamwina Nsapu è l’avversione verso il Presidente Kabila e la sua agenda politica personalistica, nepotista e accentratrice rea di soffocare le ambizioni autonomiste delle regioni. Infatti, sia il BDK che il Kamwina Nsapu sono promotori di un disegno federalista per il Paese che garantisca sostanziali poteri alle autonomie locali.
Gli scontri tra governo e opposizioni si inseriscono in un contesto politico particolarmente turbolento. Infatti, nonostante la scadenza del suo secondo e ultimo mandato fosse prevista per il 19 dicembre 2016, il Presidente Kabila si è mostrato reticente a cedere il potere e indire nuove elezioni, dichiarando che l’impreparazione logistica della macchina elettorale e infiammando la protesta di tutti i movimenti di opposizione. Il 31 dicembre scorso, Kabila e la coalizione delle forze di opposizione, guidate allora dal carismatico Etienne Thsisekedi, avevano raggiunto un accordo di coabitazione che prevedeva che Kabila sarebbe rimasto al potere fino a prossime elezioni, previste per la fine del 2017, affiancato da un Primo Ministro che fosse membro delle forze di opposizione e da un consiglio di transizione. Tuttavia, si teme che Kabila possa sfruttare questo anno di transizione per promuovere emendamenti costituzionali che li permettano di candidarsi per un terzo mandato e, attraverso brogli elettorali, conservare il proprio posto al vertice dello Stato.
Un simile scenario appare fortemente conflittuale e potrebbe rapidamente peggiorare nel prossimo futuro, soprattutto nel caso in cui le tensioni tra Kabila e i movimenti di opposizione dovessero degenerare in una incontrollabile escalation della violenza.

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