Geopolitical Weekly n.246

Geopolitical Weekly n.246

Di Monica Esposito
09.02.2017

Francia

Lunedì 6 febbraio, centinaia di cittadini di Aulnay-sous-bois, banlieue a nord-est di Parigi, nel Dipartimento di Saint-Denis, hanno manifestato in solidarietà di Theo, un ragazzo di 22 anni che giovedì scorso sarebbe stato violentato da agenti della polizia. I quattro sospettati dell’accaduto sono, per ora, stati sospesi dal servizio.
Da lunedì notte le manifestazioni sono diventate più violente, degenerando in una vera e propria guerriglia urbana tra i manifestanti e le Forze di Polizia. In questo senso, le agitazioni a Aulnay sous-bois hanno ricordato, l’insurrezione delle banlieue dell’ottobre 2005, iniziate a Clichy sous-bois, nel Dipartimento di Saint-Denis, e propagatesi tra le altre periferie nord-orientali di Parigi. Le proteste sociali durarono tre settimane e l’allora Presidente francese Jacques Chirac decretò, per la prima volta su territorio francese, lo stato di emergenza.
Dal 2005, nella gestione del malessere delle banlieue ha prevalso un approccio securitario e repressivo a discapito di progetti mirati di inclusione sociale ed economica. Ancora oggi, le banlieue restano zone marginali nel contesto politico francese. Città come Aulnay sous-bois sono caratterizzate da una popolazione di discendenza coloniale (Maghreb e Africa francese) che soffre di un alto tasso di disoccupazione e una scarsa rete di servizi, a cui si aggiunge un forte disagio identitario. All’interno dello scontro di valori tra il centro e la periferia, la mancanza di un modello identitario condiviso ha permesso la proliferazione di attività criminali e addirittura la diffusione sotterranea dell’ideologia jihadista.
La sicurezza e le condizioni delle banlieue rappresentano un tema di assoluto rilievo per l’elettorato francese, soprattutto in questi mesi di campagna elettorale in vista delle prossime presidenziali. Situazioni di instabilità come quelle di Aulnay sous-bois potrebbero favorire il sostegno a posizioni conservatrici come quelle del Front National, a favore della proroga dello stato di emergenza, islamofobe e contro l’accoglienza di immigrati e profughi, e mettere in difficoltà le formazioni progressiste, come quelle del Partito Socialista di Benoit Hamon, propenso a un’implementazione delle politiche di recupero sociale e dell’accoglienza.

Romania

Il 6 febbraio, il Primo Ministro socialdemocratico Sorin Grindeanu ha revocato il decreto inerente i reati di corruzione e abuso di ufficio, proposto lo scorso 31 gennaio, in seguito alle proteste che si sono scatenate in tutta la Romania, le più imponenti dalla caduta di Ceausescu. Questo non è bastato a calmare i manifestanti che ad oggi chiedono anche le dimissioni del Primo Ministro.
Il decreto avrebbe previsto la de-penalizzazione dell’abuso di potere per i casi inerenti somme inferiori ai 44.000 euro. Il provvedimento è stato interpretato come uno strumento “ad hoc” per scagionare il leader del Partito Socialdemocratico (PSD), Liviu Dragnea, attualmente sotto processo perché accusato di aver usato 24.000 euro di denaro pubblico per stipendiare due persone alle dipendenze del suo partito. A causa della condanna per abuso di ufficio, Dragnea, pur avendo vinto le elezioni parlamentari di dicembre, non ha potuto presentare la sua candidatura come Primo Ministro, promuovendo al suo posto proprio Grindenau.
Secondo Dragnea le proteste sarebbero state orchestrate dal Presidente Klauss Iohannis, leader del Partito Nazionale Liberale (PNL), al fine di impedire al Partito Socialdemocratico di attuare il programma di riforme presentato durante la campagna elettorale. Nonostante molti membri del governo proposti dal PSD fossero stati accusati di corruzione, a dicembre il partito di Dragnea ha ottenuto la maggioranza dei voti, grazie alla promessa dell’aumento dei salari e delle pensioni e della riduzione delle tasse. Il PSD ha anche screditato il lavoro del Dipartimento Anti-Corruzione del governo, che negli ultimi anni aveva preso di mira soprattutto suoi esponenti.
Il problema della corruzione è molto sentito dall’elettorato nazionale, da decenni desideroso di un profondo rinnovamento della classe dirigente e di un sensibile miglioramento nella gestione della cosa pubblica. Le proteste nei confronti dell’esecutivo a guida PSD potrebbero proseguire nelle prossime settimane, mettendo a dura prova la governabilità del Paese e spingendo il partito di potere a pensare ad un eventuale rimpasto dell’Esecutivo.

Somalia

L’8 Febbraio si sono svolte le elezioni presidenziali che hanno sancito la vittoria di Mohamed Abdullahi Mohamed “Farmajo”, ex Primo Ministro tra il 2010 e il 2011, che ha sconfitto con 184 voti il Presidente uscente Hassan Sheikh Mohamud, in carica dal 2012 e considerato inizialmente il favorito.
L’elezione presidenziale non è diretta e avviene attraverso un processo complesso. Innanzitutto viene riunito il consiglio dei clan, formato da 135 delegati convocati in base al principio di rappresentanza 4.5 che assegna 30 seggi a ciascuno dei 4 clan principali (Daarod, Hawiiye, Dir e Rahanweyn) e 15 seggi ai clan minori e alla donne. Il consiglio dei clan nomina 24.000 delegati che a loro volta scelgono 275 onorevoli e a 75 senatori. Questi ultimi, infine, eleggono il Presidente che nomina Il Premier e il Vice-Premier.
Le elezioni erano state rimandate per tre volte nel corso del 2016 (l’ultima volta a fine novembre) sia per ragioni di sicurezza legati alla campagna terroristica di al-Shabaab sia per ragioni di opportunità politica. Infatti, appare possibile che i continui rinvii fossero funzionali ai partiti in contrasto con Mohamud per trovare un candidato forte e credibile da opporli alle presidenziali.
Il neo-eletto Farmajo è espressione del clan Daarod Marehan, politicamente vicino al governo keniota e sostenitore di una strategia di State building incentrata su ampie autonomie per gli Stati Federali. In questo, il nuovo Presidente appare diametralmente opposto al suo predecessore, espressione del clan Hawiiye Abaal, vicino all’Etiopia e desideroso di costruire un sistema fortemente accentrato.
Il Presidente Farmajo eredita un Paese che, nonostante i miglioramenti dell’ultimo decennio, continua a vessare in una condizione di profondo sottosviluppo e drammatica incertezza politica e securitaria a causa sia delle frizioni tra Stato centrale e Stati Federali sia della resilienza del movimento jihadista al-Shabaab, ancora attivo e pericoloso soprattutto nelle regioni centro-meridionali del Paese.

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