Geopolitical Weekly n.244

Geopolitical Weekly n.244

Di Monica Esposito
26.01.2017

Gambia

Il 22 Gennaio, il Presidente uscente del Gambia Yahya Jammeh, reticente nel lasciare il potere dopo la sconfitta elettorale del 1 Dicembre, è volato in esilio in Guinea Equatoriale, portando con sé 10 milioni di dollari ed altri oggetti di valore di proprietà dello Stato.
Dopo quasi un mese di mediazione condotta dall’ECOWAS (Economic Community of West Africa States, Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale), dall’Unione Africana e dalle Nazioni Unite, è stato finalmente raggiunto un accordo tale da convincere Jammeh a lasciare il Paese e a permettere l’insediamento del uovo Capo dello Stato Adama Barrow. Infatti, Jammeh pare abbia ricevuto delle garanzie riguardo la sua sicurezza personale e della sua famiglia, con tutti i benefici che si confanno a un cittadino, leader di un partito politico ed ex capo di Stato. Una decisione che il Presidente Barrow ha sottolineato non essere legalmente vincolante.
Nonostante le pressioni dei membri dell’ECOWAS, le cui forze militari sono entrate in Gambia per accelerare la transizione politica, Jammeh non ha lasciato il Paese finché ha ricevuto adeguate garanzie riguardo la sua futura immunità. Il Presidente uscente è, infatti, noto per i crimini commessi durante la sua lunga stagione di potere, durata per circa 22 anni. La Guinea Equatoriale sembra poter conferire le garanzie richieste da Jammeh. Governata dal regime autoritario di uno dei più longevi autocrati africani, Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, la Guinea Equatoriale non fa parte della Corte Penale Internazionale, pertanto i crimini commessi da Jammeh non sarebbero perseguibili.
Jammeh ha lasciato ad Adama Barrow un Paese in profonda crisi economica, aggravata dal dissipamento delle casse dello Stato, e con una situazione politica incerta. Date queste condizioni, pare che Adama Barrow abbia chiesto alle forze spiegate dall’ECOWAS di rimanere in Gambia fino a quando la situazione generale di sicurezza nel Paese non sarà ristabilita del tutto.

Somalia

Il 25 Gennaio, il gruppo jihadista al-Shabaab ha fatto esplodere due autobombe davanti all’Hotel Dayah, edificio sito nei pressi del Parlamento, nella capitale Mogadiscio. Alcuni miliziani sarebbero poi entrati nell’Hotel, dove avrebbero aperto il fuoco contro i presenti. Nell’azione hanno perso la vita 28 persone.
L’Hotel Dayah è famoso per essere frequentato da politici, membri del Governo e imprenditori, tutti probabili obiettivi dell’attacco. Al-Shabaab e il Governo Federale, sostenuto dai Paesi occidentali, si contendono da anni il controllo del Paese, mentre la popolazione civile subisce gli effetti della perdurante catastrofe umanitaria.
Nonostante sia stata espulsa da Mogadiscio nell’agosto 2011 grazie all’azione di AMISOM (African Union Mission to Somalia, Missione dell’Unione Africana in Somalia), al-Shabaab non ha mai interrotto la sua campagna terroristica nella capitale, aumentando il numero degli attacchi negli ultimi mesi allo scopo di destabilizzare le elezioni presidenziali. Queste ultime, previste inizialmente per settembre 2016, sono state già rinviate numerose volte a causa della deficitaria situazione securitaria.
Nel 2014, le offensive congiunte dell’AMISOM e dell’Esercito Nazionale Somalo hanno privato al-Shabaab di molti avamposti strategici, anche se il gruppo jihadista controlla ancora ampie zone rurali nel centro e nel sud del Paese.
Inoltre, sebbene l’AMISOM sia il principale fattore di stabilizzazione del Paese, un processo di pace sotto la sua egida continua ad essere interpretato da alcuni clan somali come un’occupazione da parte di forze straniere, per giunta cristiane. Un aspetto su cui fa leva al-Shabaab per screditare ulteriormente il processo di stabilizzazione del Paese.

Siria

Nelle giornate del 23 e 24 gennaio si è svolto ad Astana, in Kazakistan, un nuovo round di colloqui sulla crisi siriana. I negoziati, promossi da Russia, Iran e Turchia, hanno visto la partecipazione di rappresentanti sia del Governo di Bashar al-Assad sia di circa quindici gruppi di opposizione. Nonostante inizialmente fossero previsti dei colloqui diretti tra le parti, le riunioni sono state caratterizzate da un clima di reciproche accuse tra i contendenti che non ha permesso di raggiungere alcun risultato tangibile sul piano della mediazione diplomatica. Nella dichiarazione finale, infatti, è contenuto esclusivamente l’impegno da parte dei rappresentanti dei tre Paesi promotori di stabilire un meccanismo per assicurare l’applicazione del cessate il fuoco raggiunto nel Paese lo scorso 29 dicembre 2016.
Se sul piano negoziale non sono stati compiuti significativi passi avanti, sul piano politico i colloqui in Kazakistan hanno di fatto riaffermato la centralità della Russia, dell’Iran e della Turchia nello sviluppo delle future dinamiche siriane. In particolare, l’esito degli incontri di Astana appare essere particolarmente favorevole al Cremlino che, attraverso i colloqui, ha definitivamente consolidato sul piano politico-diplomatico i risultati militari ottenuti delle forze lealiste e, grazie al mantenimento del regime di “cessate il fuoco”, potrebbe maggiormente concentrare la propria azione militare nella provincia orientale del Paese contro le milizie di al-Baghdadi.
Al contrario in questa fase, gli Stati Uniti ed i Paesi europei appaiono piuttosto al margine delle trattive. Se Washington sembra propendere per una strategia attendista nel momento delicato dell’insediamento della nuova amministrazione Trump, l’Unione Europea continua a pagare l’assenza di una politica comunitaria in relazione al conflitto siriano, nonostante le ripercussioni che quest’ultimo continua ad avere sul Continente.

Stati Uniti

Il 23 gennaio, a pochi giorni dal suo insediamento, il Presidente americano Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per far uscire gli Stati Uniti dal Partenariato Transpacifico (TPP), accordo non ancora approvato dal Congresso, la cui ratifica era attesa per febbraio 2018.
Firmato un anno fa, durante l’amministrazione Obama, il trattato mirava a creare una zona di libero scambio nell’area dell’Oceano Pacifico. I Paesi coinvolti erano 12 (Australia, Brunei, Canada, Giappone, Malesia, Cile, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam e Stati Uniti) che insieme avrebbero rappresentato il 40% dell’economia mondiale. Secondo la strategia di Obama del “pivot to Asia”, il trattato, da cui la Cina è stata esclusa, avrebbe avuto anche l’obiettivo di contrastare l’influenza economica e politica di Pechino nel Pacifico.
In contrasto al TTP, dal 2012 la Cina ha promosso lo sviluppo del RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership, Partenariato economico regionale comprensivo), un accordo di libero scambio che include Pechino, I Paesi dell’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico), Australia, India e Giappone.
Usciti definitivamente dal TPP, gli Stati Uniti probabilmente tenderanno a prediligere accordi bilaterali con i singoli Paesi del Pacifico. Tuttavia, ciò potrebbe portare ad un ridimensionamento dell’ influenza politico-economica di Washington all’interno della regione. Se per Trump l’uscita dal TPP ha avuto lo scopo principale di dimostrare di mantenere le promesse fatte ai suoi elettori, infatti, il vuoto creato potrebbe essere colmato dalla Cina che sfrutterebbe l’occasione per rafforzare la propria leadership sia in ambito economico, sia dal punto di vista diplomatico. Senza la controparte americana, la Cina, trovandosi in una posizione di forza nel tavolo negoziale, avrebbe l’opportunità di modificare i criteri degli accordi sul libero scambio a proprio vantaggio, vanificando così gli sforzi fatti dall’Amministrazione Obama, che aveva più volte criticato Pechino per la mancanza del rispetto dei diritti umani, ostacolando, quindi, la partecipazione cinese ad accordi economici internazionali.

Turchia

Il 21 gennaio, con 339 voti favorevoli su 550, la Grande Assemblea Nazionale Turca ha approvato la legge che modica la Costituzione. Hanno votato a favore, oltre ai deputati dell’AKP (Partito della giustizia e dello Sviluppo), formazione del Presidente Erdogan, anche i nazionalisti dell’MHP (Partito Nazionalista di Azione). La riforma sarà ora sottoposta a referendum confermativo, previsto probabilmente per il mese di aprile. L’obiettivo di Erdogan è quello di trasformare la forma di governo da Repubblica parlamentare a Repubblica presidenziale, con il Capo dello Stato, già eletto dai cittadini, che diventerebbe anche capo dell’esecutivo.
Nello specifico, la riforma prevede che il Presidente diventi anche Capo del Governo, dal momento che viene eliminata la carica di Primo Ministro, con potere di nomina e revoca dei ministri, dei vicepresidenti, degli alti comandi delle Forze Armate, dei Direttori delle agenzie di Intelligence e Sicurezza nazionale , dei rettori delle università, delle alte burocrazie dello Stato e dei vertici della magistratura. Inoltre, la riforma rimuove il vincolo di neutralità, permettendo al Capo dello Stato di continuare ad essere contestualmente leader di un partito politico e di emettere decreti esecutivi senza bisogno di alcun passaggio parlamentare.
Rispetto al passato, la riforma non modifica né la durata massima del mandato presidenziale (5 anni) né il numero massimo di possibili mandati (2). Tuttavia, esiste la possibilità che i cambiamenti alla Costituzione coincidano con un azzeramento nel conteggio dei mandati effettuati sinora, permettendo ad Erdogan di restare presidente fino al 2029.
I sostenitori della riforma affermano che porterà stabilità ai governi e maggiore incisività nella lotta al terrorismo, mentre i critici si focalizzano sul fatto che il Paese potrebbe rischiare di andare incontro ad una ulteriore deriva autoritaria. L’attenzione si sposta ora sul referendum di aprile, dove non è scontata la vittoria di Erdogan, nonostante sommando i voti di AKP e MHP alle ultime elezioni parlamentari del 2015 si superi il 60% dei consensi, ben oltre il necessario affinché la riforma venga approvata (è richiesta la maggioranza assoluta dei votanti). La campagna referendaria si inserisce infatti in un contesto di tensione permanente in Turchia, dovuto ai continui attacchi terroristici, attribuiti a sigle di matrice salafita, curda e marxista-leninista, che minacciano di destabilizzare ulteriormente questa delicatissima fase di transizione, decisiva per i futuri equilibri politici ed istituzionali della Turchia.

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