Il Pentagono al bivio tra Trump e Clinton
Americhe

Il Pentagono al bivio tra Trump e Clinton

Di Danilo Secci
03.11.2016

Con l’avvicinarsi delle consultazioni elettorali per l’elezione del prossimo Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump e Hillary Clinton hanno progressivamente affrontato il tema delle future politiche in tema di Difesa.
Tra i due, l’unico punto sul quale sembrerebbe esserci intesa è quello per cui si vorrebbe rimuovere il meccanismo di controllo del bilancio federale in base al quale, in caso di superamento dei limiti di spesa per un esercizio finanziario, si provvede al taglio drastico dei fondi per alcuni capitoli, tra cui per il 50% quello per la Difesa (c.d. “sequestration”).
Per il resto, permangono forti differenze dettate da opposte visioni sull’ammontare del budget delle spese militari e da una diversa visione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo per i prossimi anni.

Trump sembrerebbe intenzionato ad intraprendere un percorso politico di progressivo neo-isolazionismo degli Stati Uniti dalle principali aree di crisi mondiali. Tale atteggiamento, comunque, sarebbe compensato da un maggior potenziale militare che permetterebbe agli USA, in caso di necessità, di affrontare situazioni di tensione internazionale partendo da una posizione di forza.
Il programma di riarmo americano presentato da Trump è altamente funzionale a questo pensiero strategico. Tra le Forze Armate, quella per cui sono previsti gli investimenti maggiori è la Marina con un piano di acquisizione di ulteriori 42 vascelli (rispetto ai 36 già previsti) che permetterebbe di portare il numero delle unità in servizio a 350. Il potenziamento della US Navy, forza di proiezione per eccellenza, non si concilierebbe con l’isolazionismo promosso da Trump se non nell’ottica di un incremento delle capacità di intervento (potenziale) in tutto il mondo. Ancora, il ricco uomo d’affari americano vorrebbe incrementare il corpo dei Marines di 20.000 uomini e i velivoli a disposizione dell’Aeronautica di 100 unità, il che è in linea con la volontà di accrescere le potenzialità d’azione a lungo raggio delle proprie Forze Armate. Interessanti anche i numeri a favore dell’Esercito per cui è previsto un aumento degli effettivi compreso tra le 60.000 e 90.000 unità. Visto che l’US Army, strutturalmente, è il corpo militare che presenta gli elementi di staticità maggiori rispetto a quelli delle altre Forze Armate, è ipotizzabile che tale incremento possa essere giustificato dalla volontà di impiegare questi uomini in operazioni di controllo del confine meridionale col Messico, tematica per la quale Trump ha mostrato in più occasioni una certa sensibilità.
Notevole l’impegno nel settore armamenti strategici per il quale si prevede la modernizzazione dei dispositivi nucleari e il potenziamento della difesa antimissile: in particolare, il candidato repubblicano vorrebbe un rafforzamento dei sistemi ABM nazionali con l’installazione di un radar di scoperta a lungo raggio nella costa orientale del Paese e la possibilità di schieramento di un sito di missili intercettori a lungo raggio. L’insieme di questi programmi dovrebbe comportare un incremento medio del budget della Difesa di circa 80 miliardi di dollari l’anno.

Da un punto di vista strategico, in deroga alla tendenza neo-isolazionista di cui sopra, nel caso di elezione Trump vorrebbe chiudere la partita con l’ISIS mettendo in atto un piano di intervento che prevede la neutralizzazione dello Stato Islamico e dei suoi seguaci in soli 30 giorni.
Viste le simpatie personali che, in diverse occasioni, il candidato repubblicano ha mostrato nei confronti del Presidente Vladimir Putin, è possibile un miglioramento delle relazioni diplomatiche con la Russia, fortemente incrinatesi a seguito della crisi ucraina del 2014. Per Mosca, le aperture di Trump potrebbero significare un minor impegno militare USA in Europa che potrebbe dar spazio ad uno status quo più favorevole per la Russia.
Per gli alleati europei, la sua elezione susciterebbe una certa preoccupazione data l’indisponibilità a continuare a sostenere la maggior parte dei costi per la difesa del continente. Da ciò il rinnovato appello fatto dal candidato repubblicano ai membri europei della NATO affinché rispettino l’impegno di destinare al budget della Difesa almeno il 2% del proprio Prodotto Interno Lordo, obiettivo che permetterebbe loro di aumentare la credibilità del proprio deterrente militare riducendo l’apporto da parte americana. Tale argomentazione interessa anche l’Italia che attualmente dedica al comparto Difesa risorse che riescono a malapena a superare l’1% del PIL.
Di timbro diverso potrebbero essere le relazioni con la Cina: membri delle Forze Armate vicini a Trump hanno sostenuto la necessità di mantenere e garantire la presenza militare nell’Asia-Pacifico, soprattutto per la protezione delle linee di comunicazione aeree e marittime, dalle quali si prevede transiteranno i 2/3 del commercio globale nei prossimi 10 anni. Vista la valenza geo-strategica di questi corridoi, in un contesto in cui la Repubblica Popolare Cinese è impegnata nella costruzione di isolotti artificiali e rivendicazioni nel Mar Cinese Orientale e Meridionale, è inevitabile, per i prossimi anni, il prolungamento della competizione militare con Pechino.

A differenza di Trump, la Clinton ha rilasciato pochissimi dettagli sul proprio programma di Difesa limitandosi a dire di voler interrompere l’andamento al ribasso dei finanziamenti promosso da Obama e di potenziare i sistemi di difesa missilistica regionali schierati nei continenti europeo (NATO Ballistic Missile Defence) ed asiatico (THAAD). È presumibile, comunque, il proseguimento di alcuni importanti programmi militari promossi durante l’era Obama, tra cui quello per la costruzione del nuovo bombardiere strategico B-21 Raider e quello finalizzato alla sostituzione dei sommergibili lanciamissili nucleari classe-Ohio con i nuovi battelli classe-Columbia.

Per quanto riguarda la politica estera, invece, la candidata democratica ha espresso una visione nettamente opposta rispetto a quella di Trump, che prevede un ruolo più attivo e di guida degli USA su tutti i fronti, in particolare su quello europeo, mediorientale ed asiatico.
In Europa, la Clinton sarebbe favorevole ad una maggiore presenza delle Forze Armate americane per rassicurare gli alleati dell’Europa Centro-Orientale e contrastare l’attivismo militare russo nel continente, particolarmente intenso a seguito della crisi ucraina del 2014. Stesso discorso in Asia dove andrebbe sviluppandosi il pivot-to-Asia promosso da Obama, finalizzato, soprattutto, al contenimento dell’espansionismo politico e militare della Cina. Dato il carattere interventista della candidata democratica, è ipotizzabile un potenziamento delle strutture militari in Corea del Sud, Guam, Okinawa, Singapore e Australia, nonché la stesura di accordi militari per lo schieramento, più o meno permanente, di mezzi e personale militare americano in altri Paesi della regione (Vietnam, per esempio).
Anche in Medio Oriente, Hillary sembra intenzionata ad un maggior coinvolgimento politico e militare americano, sia nella lotta al terrorismo che nel sostegno a governi moderati interessati a percorsi di riforma in senso democratico delle proprie istituzioni. Nel breve termine, è ipotizzabile il prosieguo del supporto al governo iracheno nelle operazioni contro lo Stato Islamico e un maggior impegno politico e militare in funzione anti-ISIS e anti-Assad nello scenario siriano. È chiaro che in un contesto in cui la Russia è intervenuta a difesa dell’attuale governo di Damasco, più uomini e mezzi militari americani potrebbero, di conseguenza, innalzare maggiormente la tensione con Mosca.

In conclusione, a prescindere da quale sarà il vincitore del prossimo confronto elettorale americano, sembra certo un aumento delle spese per la Difesa dettato sia da minori vincoli di bilancio (sequestration) che da una politica di riarmo (Trump) o estera (Hillary) più attiva rispetto a quella promossa da Obama. In misure diverse, entrambi i candidati ambiscono a creare una struttura militare multitasking capace di assolvere i fondamentali compiti della difesa convenzionale e nucleare da attori statali classici (Cina e Russia) e di far fronte a minacce asimmetriche come quelle del terrorismo e del cyber warfare. Ciò potrebbe comportare l’individuazione di una soglia minima di spesa, certamente superiore ai 600 miliardi di dollari. Un limite minimo potrebbe essere imposto, inoltre, sulla percentuale del PIL americano da destinare al settore militare, che non dovrebbe scendere sotto al 3%. Con gli attuali parametri di crescita dell’economia americana, quindi, potrebbe ritenersi valida la previsione per cui nei prossimi anni l’ammontare del budget per la Difesa USA potrebbe attestarsi tra i 625 e 650 miliardi di dollari, cifra sufficiente per soddisfare una politica estera più attiva o un piano di riarmo che permetta agli Stati Uniti di mantenere, con un profilo internazionale più basso, la supremazia militare su tutti i continenti.

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