Geopolitical Weekly n.222

Geopolitical Weekly n.222

Di Giulia Conci e Luigi Rossiello
09.06.2016

Sommario: Corea del Nord, Israele, Kazakistan, Somalia, Turchia

Corea del Nord

Lunedi 6 giugno l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA) ha annunciato che la Corea del Nord potrebbe aver riaperto l’impianto per la produzione di plutonio nel principale complesso nucleare di Yongbyon, nella provincia di North Pyong’an, a circa 90 chilometri dalla capitale. Ottenuto attraverso il ri-processamento del combustibile esausto (uranio) del reattore per la produzione di energia elettrica presente nello stesso sito, il plutonio è già stato utilizzato in passato dal regime nordcoreano per effettuare alcuni test nucleari, l’ultimo dei quali portato a termine con successo lo scorso gennaio.

Il programma di ricerca di Pyongyang rappresenta una delle principali minacce per la sicurezza globale. La volontà di dotarsi di una capacità di deterrenza nucleare, infatti, ha sempre spinto il regime nordcoreano a finalizzare la propria ricerca scientifica non solo allo sviluppo di ordigni atomici ma anche alla messa a punto di una tecnologia balistica all’avanguardia, per ottenere vettori ideali per le proprie testate atomiche. La preoccupazione internazionale per l’interesse nucleare di Pyongyang aveva portato il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ad inizio anno, ad inasprire le sanzioni già esistenti contro il Paese, cercando di far leva sull’isolamento politico ed economico per far desistere il regime dalle continue provocazioni.

Nonostante in occasione della storica convocazione del Congresso del Partito (Korean Workers Party - KWP), lo scorso maggio, il Leader Kim Jong-un sembrava aver ammorbidito le proprie posizioni in merito al possibile utilizzo dell’arma nucleare, la notizia della ripresa delle attività di produzione di plutonio sembra testimoniare che la strategia internazionale non stia portando al risultato sperato. Il rilancio nordcoreano, infatti, sembra evidenziare un’indisponibilità da parte del Leader Supremo di accondiscendere alle richieste internazionali di dismettere il proprio programma di ricerca nucleare. In un momento in cui i rapporti tra Pyongyang e gli attori regionali sono ai minimi storici, tale reticenza potrebbe comportare un inasprimento delle tensioni nell’area. Tuttavia, se la possibilità di utilizzare lo strumento sanzionatorio aveva permesso a Paesi quali Corea del Sud, Cina, Stati Uniti e Giappone, di superare le diffidenze bilaterali per far fronte comune contro Pyongyang, un’eventuale escalation nei toni dello scontro potrebbe non portare allo stesso risultato.

Israele

Lo scorso 8 giugno, a Tel Aviv due attentatori hanno aperto il fuoco contro la clientela di un ristorante nella zona del “Sarona market”, un grande centro commerciale nel centro della città non molto distante dai palazzi del Ministero della Difesa israeliano, uccidendo 4 persone e ferendone altre 16. Il bilancio delle vittime sarebbe potuto essere anche più alto se non fosse che le armi usate dai due attentatori, presumibilmente delle riproduzioni artigianali della mitraglietta svedese “Carl Gustav m/45”, diffusa in Medio Oriente negli anni ’50, abbiano smesso improvvisamente di funzionare.

Gli attentatori, due cugini palestinesi provenienti da Yatta, un villaggio nelle vicinanze di Hebron (Cisgiordania), hanno poi tentato la fuga, ma sono stati raggiunti dalle forze di polizia. Uno dei due assalitori è morto dopo essere stato gravemente ferito mentre l’altro è stato arrestato.

Oltre ad aumentare la presenza di Forze di Sicurezza poste a presidio dei luoghi pubblici, il Governo di Tel Aviv ha preso delle misure straordinarie, sospendendo i permessi di ingresso a tutti i cittadini palestinesi nei territori israeliani, esclusi i casi di emergenza sanitaria o umanitaria.

E’ evidente come tale provvedimento rischia di esacerbare ancora di più il clima di tensione e l’escalation delle violenze tra comunità palestinese e governo Israeliano. Quest’ultimo, come dimostra la recente nomina di Avigdor Lieberman a ministro della Difesa (leader della destra nazionalista “Israel Beitenu”) appare sempre più attestarsi su una netta posizione conservatrice da cui deriva un forte irrigidimento proprie scelte politiche. Sempre più, infatti, lo stesso premier Netanyahu ha fatto ormai propria una retorica politica fortemente intransigente e poco incline al compromesso nei confronti delle dinamiche interne al Paese e dei rapporti con le forze politiche di opposizione. Da parte sua, anche la popolazione palestinese deve confrontarsi con lo spettro di una crescente radicalizzazione delle proprie agende politiche, diretta conseguenza del peggioramento delle condizioni di vita.

Kazakistan

Domenica 5 giugno, la città nord-occidentale di Aktobe, è stata teatro di un complesso attacco terroristico. Un commando di miliziani ha prima attaccato due negozi di armi, nei pressi dei quali ha ingaggiato scontri a fuoco con le forze di polizia, per irrompere all’interno della base militare locale.

Il numero complessivo delle vittime, salito anche a causa dell’operazione anti-terrorismo intrapresa dalla polizia, è stato di 17 persone: tre civili, tre uomini delle forze di sicurezza e 11 terroristi.

Nonostante inizialmente i sospetti delle autorità kazake fossero ricaduti sui gruppi jihadisti attivi nel Paese, quali il Movimento Islamico dell’Uzbekistan (MIU) e l’Unione dei Mujaheddin dell’Asia Centrale (UMAC), in un secondo momento è giunta la rivendicazione di una sedicente “Armata di liberazione del Kazakistan” (ALK). Tale non meglio identificato gruppo, al suo primo attacco, agirebbe per sovvertire il regime del Presidente Nursultan Nazarbayev e instaurare la democrazia nel Paese. Secondo alcune fonti del governo kazako, l’azione dell’ALK potrebbe essere stata orchestrata ed etero-diretta da alcuni oligarchi decisi a destabilizzare il Paese e favorire un avvicendamento al vertice dello Stato.

L’ipotesi del terrorismo islamico era suggerita dal fatto che l’area in questione non è nuova ad episodi di violenza jihadisti. Infatti, nel maggio del 2011 proprio Aktobe è stata teatro del primo attentato suicida della storia del Kazakistan.

Ad oggi, Il MIU e l’UMAC sono i network terroristici maggiormente attivi nel Paese. Il primo gruppo, dopo aver fatto parte della rete di al-Qaeda, nel 2015 ha ufficializzato la propria affiliazione allo Stato Islamico (IS o Daesh), mentre il secondo gruppo costituisce una costola secessionista del MIU. L’acuirsi della minaccia terroristica, elemento fortemente destabilizzante per il governo di Astana, potrebbe derivare anche dal rientro in Kazakistan dei circa 200 foreign fighters Kazaki arruolati nelle formazioni jihadiste attive in Siria e Iraq.

Somalia

La mattina del 9 giugno, un commando di al-Shabaab, il gruppo jihadista attivo in Africa orientale, ha attaccato una base militare etiope parte del dispositivo della missione AMISOM (African Union Mission in Somalia) a Halgan, un villaggio situato nella regione di Hiraan, in Somalia centrale (300 km a nord di Mogadiscio).

I miliziani avrebbero prima fatto esplodere un’autobomba per irrompere nella base per poi ingaggiare militari etiopi in un lungo scontro a fuoco. Il bilancio finale dello scontro è di circa 153 morti, di cui 43 militari etiopi.

Negli ultimi mesi al-Shabaab ha sensibilmente incrementato il numero di attacchi contro i contingenti di AMISOM, nel tentativo di arrestare il processo di stabilizzazione del Paese ed i progressi del governo di Mogadiscio. Dal giugno dello scorso anno, i commando jihadisti hanno preso d’assalto tre basi dell’Unione Africana, uccidendo 54 soldati del Burundi a Leego, 19 dell’Uganda a Jannaale e oltre 100 militari del Kenya a El-Adde.

L’attacco alla base di Halgan può essere interpretato anche come una dimostrazione di forza di al-Shabaab, messo in difficoltà dall’avanzata delle truppe di AMISOM e dai raid dell’aeronautica statunitense. Infatti, nonostante le perdite territoriali, i conflitti interni alla leadership e la crescente concorrenza da parte di gruppi di recente formazione, come Jabha East Africa, al-Shabaab continua a rappresentare una minaccia concreta per la sicurezza della Somalia e di tutto il Corno d’Africa.

Turchia

Martedì 7 giugno, a Istanbul, nel quartiere centrale di Beyazit un’autobomba è esplosa contro un autobus della polizia, provocando la morte di 11 persone, di cui di cui 4 civili, e il ferimento di altre 36. Il giorno seguente, un’altra autobomba è esplosa davanti al commissariato di polizia nella cittadina di Midyat, nella provincia meridionale a maggioranza curda di Mardin, presso il confine siriano, causando la morte di 3 agenti e circa 30 feriti.

Anche se nessun gruppo ha rivendicato i due attacchi, le dinamiche, i luoghi e gli obbiettivi di entrambi permettono di sviluppare alcune ipotesi. Per quanto riguarda l’attentato di Istanbul, appare probabile il coinvolgimento del TAK (falchi per la Libertà del Kurdistan), movimento ultra-nazionalista curdo dedito ad attacchi contro le Forze Armate, le forze di sicurezza e la popolazione civile, soprattutto nelle aree settentrionali ed occidentali del Paese. Negli ultimi mesi, infatti, il TAK è stato autore di una massiccia campagna d’attentati nelle grandi città turche, come testimoniano gli attacchi dello scorso 17 febbraio ad Ankara e del 13 marzo ad Istanbul.

Al contrario, l’attacco di Midyat, avveduto in una regione a maggioranza curda, sul fronte più caldo dello scontro tra Ankara ed i movimenti ribelli ed indipendentisti, potrebbe essere opera del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan).

Negli ultimi anni, il conflitto tra il governo centrale e il movimento indipendentista curdo risulta essersi aggravato soprattutto a seguito sia del fallimento delle trattive tra autorità statali e ribelli sia dell’inasprimento della strategia repressiva di Erdogan nei confronti delle comunità curde nel sud del Paese.

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