Il Gambia tra stagnazione del regime e protesta popolare
Africa

Il Gambia tra stagnazione del regime e protesta popolare

Di Luigi Maria Rossiello
24.05.2016

Lo scorso 14 aprile, nella capitale Banjul, durante le manifestazioni di protesta contro il regime del Presidente Yahya Jammeh, è stato ucciso Solo Sendang, uno dei leader del partito di opposizione United Democratic Party (Partito democratico unito- Udp). Sendang è morto in seguito alle violenti torture subite dopo l’arresto.

Un episodio che può essere accostato all’immolazione del tunisino Mohamed Bouazizi, la cui morte diede vita alle Primavere Arabe. Seppure i due episodi siano avvenuti in circostanze molto diverse tra loro, l’effetto può essere accomunato. Come il gesto di Bouazizi aveva mobilitato l’intera popolazione tunisina e non solo, lo stesso è successo dopo l’uccisione di Sendang. Inoltre, Amnesty International ha chiesto che venga aperta un’inchiesta affinchè i responsabili della morte di Solo Sendang siano portati davanti alla giustizia. Cosa che rappresenta una svolta se si considera che le autorità gambiane non hanno mai dovuto rispondere per i propri abusi di potere. A questa prima ondata di proteste, che è stata repressa con la forza e ha portato all’arresto di numerosi manifestanti, ha fatto seguito, due giorni dopo, un’altra manifestazione popolare in cui si chiedeva chiarezza sull’uccisione di Sendang e si domandava la liberazione di tutti i prigionieri politici.

In tutta risposta, le Forze di Polizia gambiane hanno arrestato altri membri eminenti del partito di opposizione, tra cui Ousainou Darboe (leader dell’Udp). La sfida lanciata al regime repressivo di Jammeh ha avuto ripercussioni anche nel vicino Senegal (Paese che geograficamente circonda tutto il Gambia e in cui il numero di gambiani è considerevole), dove il 22 aprile gli esponenti della società civile senegalese e della diaspora gambiana si sono riuniti a Dakar inneggiando alla solidarietà tra i due popoli e alla fine della dittatura in Gambia. Infatti, il Senegal potrebbe avere più di una ragione in favore di un cambiamento politico in Gambia.

Gli attriti tra Dakar e Banjul si sono acuiti a marzo, quando una diatriba tra i trasportatori senegalesi e il governo gambiano, che ha aumentato smisuratamente le tasse per il passaggio delle merci alla frontiera, ha portato al blocco del collegamento stradale che collega i due Paesi. La situazione è ancora in sospeso, mentre la popolazione, soprattutto gambiana, ne sta pagando le conseguenze a causa della frenata degli scambi commerciali tra i due Paesi. Le controverse relazioni tra i due vicini sono poi peggiorate il 16 aprile, quando quattro membri di una delegazione ministeriale senegalese sono stati arrestati dalle autorità gambiane per aver oltrepassato i confini nella foresta alla frontiera tra i due Paesi, mentre svolgevano una missione contro il disboscamento abusivo. I funzionari sono stati liberati quattro giorni dopo, dietro le pressioni del governo di Dakar.

Il ruolo della diplomazia senegalese potrebbe risultare fondamentale per un cambiamento politico in Gambia e per la fine di un regime che dura ormai da oltre 20 anni. Il colonnello Yahya Jammeh è salito al potere nel 1996, a seguito di un Colpo di Stato guidato dal partito APRC (Alliance for Patriotic Reorientation and Costruction) che, nel 1994, ha destituito l’allora presidente Dawda Kairaba Jawara, alla guida del Paese dal 1970. Al momento del suo insediamento, Jammeh ha iniziato a mettere in atto un modus operandi proprio di un regime dittatoriale. Ha subito provveduto ad abolire la Costituzione per potersi ricandidare alle elezioni senza alcun limite in funzione ad un precedente mandato. Ha represso tutti i partiti politici.

Dal 1996 Jammeh ha sempre vinto elezioni caratterizzate da pesanti brogli e scarsa trasparenza, nonostante le sporadiche manifestazioni di protesta da parte dell’opposizione e un tentativo di Colpo di Stato avvenuto nel 2006. Il suo regime è stato contraddistinto da esecuzioni, detenzioni arbitrarie e torture che hanno portato ad un totale annientamento dei diritti umani così come al soffocamento della libertà dei media. Basti pensare che solo fare il suo nome in pubblico può ancora oggi portare all’arresto o alla tortura.

Dal punto di vista ideologico e propagandistico, Jammeh ha fatto propria una retorica fortemente anti-coloniale e anti-imperialista oltre a promuovere lo spostamento del proprio Paese nel universo politico sunnita, proclamando l’arabo come lingua ufficiale e dichiarando il Gambia una repubblica islamica.

Sebbene in Gambia, a differenza di altri Paesi dell’Africa, i rapporti tra le varie etnie siano pacifici e i contrasti intertribali si verifichino molto raramente, le criticità che il Paese si trova ad affrontare da diversi anni sono molteplici. La microcriminalità è diffusa così come lo sono la tratta di esseri umani, i traffici di armi, rifiuti tossici e medicinali contraffatti. La disoccupazione e la povertà estrema che vede il Gambia nell’ultima posizione tra i Paesi dell’Africa Occidentale in termini di Pil pro-capite, si aggiungono agli altri fattori che stanno spingendo sempre più gambiani ad abbandonare il Paese.

L’economia rappresenta uno dei settori più in difficoltà. L’intero comparto che ruota prevalentemente intorno all’agricoltura e gode di una buona industria turistica è in profonda crisi. Dipende fortemente dagli aiuti internazionali e dalla continua assistenza del Fondo Monetario Internazionale. Molti settori nevralgici dell’economia godono di consistenti investimenti dal Libano, dalla Giordania e, prima della attuale guerra, dalla Siria. Tali elementi spiegano, in parte, la volontà di Jammeh di aver eletto l’arabo come lingua ufficiale del Paese al fine di avvicinarlo a tali interlocutori in quella che può quindi essere tradotta in una mossa dai forti risvolti politici.

Le prossime elezioni, le quinte da quando Jammeh è salito al potere, potrebbero rappresentare un momento di profonda instabilità per il Paese, soprattutto in caso di radicalizzazione delle opposizioni e di manifestazioni violente del dissenso. Inoltre, l’elemento che, mai come prima, rischia di mettere in difficoltà Jammeh sembra essere rappresentato da un’opposizione più unita che in passato e che sta cercando di attirare l’attenzione della Comunità Internazionale non solo al fine di ottenere la liberazione di Darboe, ma anche per poter contare su un solido supporto della società civile in vista del voto di dicembre.

L’Udp, fondato nel 1996 proprio da Ousaino Darboe, si è aggiudicato la seconda posizione nelle elezioni presidenziali del 2001 con il 32.6% dei voti. Risultato ripetuto nel 2006, seppur con una percentuale delle preferenze leggermente inferiore e pari al 26.7%. Un anno dopo, nelle elezioni parlamentari, il Partito democratico unito ha ottenuto quattro seggi.

Prima delle proteste di metà aprile, l’opposizione, notoriamente frammentata, ha iniziato a comporre un fronte unitario. I leader dei vari schieramenti hanno concordato un’agenda comune per tentare di destituire Jammeh nelle elezioni di dicembre. Inoltre non si deve sottovalutare il potere dell’Esercito. In Gambia e all’estero nessuno rimarrebbe stupito se i militari, per quanto attualmente fedeli a Jammeh, dovessero decidere di familiarizzare con gli insorti e sostenere un cambio al vertice dello Stato. Come avvenuto in altre realtà africane, i vertici delle Forze Armate possono, se sedotti da migliori prospettive di potere, sciogliere i propri vincoli di fedeltà al regime e guidare transizioni più o meno violente.

Questa ipotesi potrebbe divenire realtà soprattutto se si considera che i vertici dell’Esercito del Gambia sono soggetti al controllo assoluto di Jammeh, che non ha esitato in passato a mettere in atto vere e proprie epurazioni. Nel 2009 è poi entrato in vigore un provvedimento finalizzato alla creazione di un ispettore generale dell’Esercito per controllare l’attività degli ufficiali. Una figura che risponde direttamente al Presidente e che gli consente di avere, almeno per ora, la situazione sotto controllo e di conservare il potere. Tali presupposti evidenziano come il malcontento possa essere palpabile anche nell’Esercito che potrebbe individuare nei recenti sommovimenti popolari l’occasione per un cambiamento.

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