Geopolitical Weekly n.219

Geopolitical Weekly n.219

Di Giulia Conci e Luigi Rossiello
19.05.2016

Sommario: Afghanistan, Kenya, Libia, Russia

Afghanistan

Mercoledì 18 maggio a Kabul il Governo di Unità Nazionale afghano ha raggiunto un accordo preliminare con Hezb-e-Islami, gruppo radicale affiliato all’insorgenza talebana guidato da Gulbuddin Hekmatyar, comandante militare originario di Kunduz (nel nord del Paese) in lotta contro il governo di Kabul sin dai primi anni Novanta.

Benché non sia ancora stato firmato dal Presidente, Ashraf Ghani, l’intesa rappresenta un primo punto di concreto contatto tra il governo centrale e il gruppo dopo quasi quindici anni di strenua opposizione. Se approvati in via definitiva, infatti, i 25 punti di cui si compone l’accordo garantirebbero al gruppo di Hekmatyar l’amnistia per i crimini fino ad ora commessi, il rilascio di alcuni prigionieri, il riconoscimento del gruppo come partito d’opposizione all’interno del panorama politico nazionale, nonché  la possibilità concessa ad alcuni militanti di entrare a far parte delle Forze di sicurezza nazionali. Da parte sua Hekmatyar accetterebbe di desistere da ogni azione militare contro il governo afghano e di interrompere i contatti sia con la militanza talebana sia con i gruppi di affiliazione qaedista ancora presenti nella regione.

Giunto in un momento di particolare difficoltà del governo centrale nei confronti della militanza, tuttavia l’accordo non sembrerebbe destinato ad avere un effetto significativo sulle condizioni di sicurezza all’interno del Paese. Il gruppo Hezb-e-Islami, infatti,  partecipa sì all’insorgenza contro il governo ma svolge un ruolo marginale rispetto alle attività dei talebani. L’ultimo attentato rivendicato da Hekmatyar risale al 16 maggio 2013, a Kabul, quando un attentatore suicida ha causato la morte di 15 persone.

L’intesa, dunque, sembra essere un estremo tentativo del governo di sedare le forti critiche sollevatesi negli ultimi mesi sia da parte dell’opinione pubblica sia della Comunità Internazionale per il mancato avanzamento dei dialoghi di pace con i Talebani. Arenatesi i colloqui con la Shura di Quetta la scorsa estate, in seguito alla rivelazione della morte dello storico leader talebano (Mullah Omar), il governo afghano non è ancora riuscito a trovare un canale negoziale tale da riaprire un tavolo di trattativa con la leadership politica talebana. Tuttavia, in un momento in cui la capacità operativa della militanza sta mettendo in seria difficoltà la tenuta delle autorità centrali, appare alquanto improbabile che il compromesso con una realtà tanto marginale all’interno del panorama dell’insorgenza, quale Hez-e-Islami, possa rappresentare un punto di svolta significativo nei rapporti di forza tra Kabul e l’insorgenza talebana.

Kenya

Lo scorso 16 maggio, a Nairobi, la polizia ha disperso con la forza una manifestazione contro le riforme elettorali proposte dal governo in previsione delle prossime elezioni generali dell’anno prossimo.

La manifestazione era capeggiata dal leader del partito all’opposizione ODM (Orange Democratic Movement) Raila Odinga, ex Primo Ministro (2008-2013) sconfitto alle presidenziali del 2013 dall’attuale Presidente Uhuru Muigai Kenyatta. Secondo Odinga, il voto del 2017 rischia di subire pesanti irregolarità a causa della composizione della Commissione Elettorale, ritenuta composta da membri vicini a Kenyatta. Per questa ragione, Odinga ne chiede lo scioglimento e la nomina di nuovi commissari.

Al di là delle divergenze politiche e dei contrasti personali, le acredini tra Odinga e Kenyatta riflettono la tradizionale conflittualità etnica che caratterizza il Paese, esplosa in molte occasioni in forme molto violente. Infatti, Kenyatta appartiene all’etnia dominante dei Kikuyu Bantu, mentre Odinga al gruppo subalterno dei Luo. Sin dall’indipendenza nel 1963, i Kikuyu Bantu hanno imposto la propria egemonia al sistema politico keniota, marginalizzando le alte realtà etnico tribali. Tra il 2007 e il 2008, alla vigilia delle elezioni, la violenza inter-etnica ha raggiunto significativi apici, con le forze governative accusate di reprimere con la forza le proteste da parte dei movimenti Luo, Luhya e Kalenjin. Tale ondata di repressione ha spinto la Comunità Internazionale a condannare con veemenza l’allora Presidente Kenyatta ed a muovere nei suoi confronti l’accusa di crimini contro l’umanità. Nonostante l’apertura di Kenyatta all’etnia Luo, manifestatasi attraverso la nomina di Odinga a Primo Ministro nel 2008, la conflittualità intera al Paese ha continuato a perdurare.

Per queste ragioni, con l’approssimarsi del voto del 2017, sussiste il rischio di riproposizione della violenza su base etnica, in un Paese caratterizzato da forte volatilità sociale, profondo sottosviluppo e costantemente esposto al rischio terroristico rappresentato dalle attività di al-Shabaab.

Libia

Lunedì 16 maggio, a Vienna, si è tenuto un summit internazionale sulla crisi libica, presieduto dal Segretario di Stato John Kerry e dal Ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni. Nel corso del vertice il Capo del Governo di Unità Nazionale (GUN) Fayez al-Serraj ha escluso, per il momento, l’eventualità di un intervento militare internazionale nel Paese. Al contrario, il Premier ha richiesto alla Comunità Internazionale aiuti in termini di addestramento, armamento ed equipaggiamento militare necessari alla ricostruzione dell’Esercito Nazionale. Tale ipotesi richiederebbe la sospensione parziale dell’embargo sulle armi imposto dalla risoluzione n.1970 (26.2.2011) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, idea su cui si confronteranno gli Stati maggiormente focalizzati sul dossier libico.

Nonostante nel corso del vertice si sia più volte evidenziata la necessità di sostenere il GUN, quest’ultimo continua a soffrire di una forte opposizione interna. Oltre al mancato riconoscimento del Parlamento di Tobruk, presieduto da Agila Saleh, il Generale Khalifa Haftar attuale comandante dell’auto-dichiaratosi Esercito Libico continua a opporsi alla leadership di Serraj e non riconosce la legittimità e l’autorità del GUN.

Tale contrapposizione rischia di esacerbarsi sul piano militare in vista dell’offensiva su Sirte, attuale roccaforte dello Stato Islamico nel Paese. Infatti, nonostante la richiesta da parte di al-Serraj di formare un unico comando militare integrato tra le forze del GUN e quelle di Tobruk, Haftar continua a portare avanti l’offensiva su Sirte con l’obiettivo di capitalizzare i benefici politici derivanti da un’eventuale vittoria contro le milizie di Daesh.

In questo contesto già fortemente instabile, qualora in sede ONU si optasse per il sollevamento dell’embargo, potrebbe essere necessario elaborare un meccanismo di verifica tale da scongiurare una nuova proliferazione indiscriminata di armamenti nel già complicato quadro di sicurezza libico.

Russia

Lo scorso 14 maggio a Derbent, nella repubblica nord caucasica del Daghestan, si è verificato uno scontro a fuoco tra le forze dell’ordine e i miliziani del Wilāyah al-Qawqaz (Provincia del Caucaso, IS-C), gruppo jihadista affiliato allo Stato Islamico (IS o Daesh). Nell’episodio sono morti due poliziotti e circa 10 sono rimasti feriti, tra cui il comandante della stazione di polizia locale. I miliziani uccisi sarebbero almeno quattro.

Una squadra di agenti era intenta in una perquisizione di un appartamento adibito a covo dai jihadisti, quando questi ultimi hanno aperto il fuoco contro la polizia, sequestrando anche un agente. Tuttavia, appena le Forze dell’Ordine hanno appreso che l’ostaggio fosse morto, è partito il blitz nel quale il commando dei terroristi è stato neutralizzato.

Negli ultimi mesi il numero di attacchi perpetrati dal Wilāyah al-Qawqaz ai danni delle Forze Armate e di Sicurezza russe ha subito una notevole impennata. A fine marzo, sempre nel Daghestan, si sono verificati due attacchi che hanno provocato la morte di due agenti di polizia e il ferimento di altri tre. Un altro attentato si è verificato lo scorso 11 aprile presso il villaggio di Novoselitskoye, nel territorio di Stavropol.

L’escalation di violenza dovuto all’incremento dell’attivismo e della propaganda del Wilāyah al-Qawqaz nel Caucaso settentrionale testimonia l’intenzione del Daesh di rinvigorire la sua azione nei territori della Federazione Russa. I gruppi jihadisti legati allo Stato Islamico, oltre ad incentivare il reclutamento dei giovani musulmani nelle repubbliche caucasiche, possono contare sul graduale rientro dei foreign fighters ceceni e daghestani impegnati sul fronte siriano ed iracheno.

In  particolare, i rischi di una nuova mobilitazione jihadista contro il governo centrale potrebbero riguardare soprattutto il Daghestan, regione tradizionalmente instabile e dalla quel provengono un numero significativo di combattenti stranieri.

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