Arabia Saudita VS Iran: cause e possibili conseguenze dello scontro sui futuri equilibri regionali
Asia e Pacifico

Arabia Saudita VS Iran: cause e possibili conseguenze dello scontro sui futuri equilibri regionali

Di Stefania Azzolina
01.02.2016

Lo scorso due gennaio in Arabia Saudita è stata eseguita la condanna a morte del noto sceicco e guida spirituale sciita Nimr Baqir al-Nimr. Tale esecuzione, avvenuta contemporaneamente a quella di altre quarantasei persone, ha fatto seguito alla condanna decretata nell’ottobre del 2014 dalla Corte Speciale Criminale (CSC) per i reati di terrorismo, sedizione, dissidenza e possesso di armi e confermata in ultimo grado lo scorso 25 ottobre dalla Corte Religiosa Suprema saudita.

La figura di al-Nimr era particolarmente nota per la sua aperta critica nei confronti della casa regnante saudita e, più in generale, per il suo impegno nella lotta alle discriminazioni perpetrate da tutte le monarchie sunnite del Golfo Persico nei confronti delle minoranze sciite. L’esecuzione del due gennaio ha così determinato un’ondata di forti proteste che ha visto protagoniste le popolazioni sciite di tutta la regione mediorientale. Le ribellioni hanno assunto un tono particolarmente violento in Iran dove i manifestanti hanno attaccato due rappresentanze diplomatiche saudite, il Consolato a Mashhad e l’Ambasciata a Teheran. In seguito a tali episodi Re Salman ha annunciato l’interruzione dei rapporti diplomatici con l’Iran, accusato di essere direttamente coinvolto negli attacchi alle suddette sedi. La linea dura assunta da Riyadh è stata prontamente supportata da numerosi Paesi appartenenti alla rete di alleanze saudite nella regione. Oltre alla chiusura dei rapporti diplomatici con l’Iran dichiarata da Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Sudan, l’11 gennaio scorso la Lega Araba, nel corso di una riunione straordinaria convocata dall’Arabia Saudita in Egitto, ha espresso una condanna pressoché unanime (fatta eccezione del Libano) nei confronti dell’atteggiamento di Teheran.

Dal canto suo l’Iran ha assunto una postura più moderata rispetto la controparte saudita. Nonostante le dichiarazioni sulle difficoltà incontrate nell’evitare gli attacchi alle legazioni saudite sollevino alcune perplessità (data la presenza costante di Forze di Sicurezza nelle zone interessate dalle rivolte), Teheran ha espresso una ferma condanna degli assalti e ha attivato prontamente delle indagini che hanno successivamente portato all’arresto dei responsabili. Più in generale, il Governo iraniano ha manifestato una maggiore propensione al dialogo per placare le contrapposizioni, appello che non ha visto alcuna risposta da parte saudita, che ha continuato a mostrare un atteggiamento poco incline alla moderazione dei toni.

Sebbene la dialettica dello scontro sunniti/sciiti faccia da leit motiv a tutte le vicende fin qui descritte, le reazioni generate dall’esecuzione di Nimr al-Nimr devono essere inquadrate in un contesto molto più ampio. L’attuale rafforzamento dello scontro tra Arabia Saudita e Iran vede la sua ragion d’essere in cause di natura prettamente politica e si inserisce in una dinamica consolidata e di lungo periodo che ha sempre visto Teheran e Riyadh contrapporsi per l’affermazione delle proprie prerogative in tutto il Medio Oriente.

Un’analisi che miri a comprendere a pieno le motivazioni di questo nuovo scontro tra i due Paesi non può non tener conto delle evoluzioni verificatesi negli ultimi anni nella regione mediorientale. Quest’ultima, infatti, ha vissuto una graduale modifica dei suoi equilibri, sia di potenza sia strategici, a causa della coincidenza di diverse congiunture internazionali.

Guardando all’Iran, l’elezione di Hassan Rouhani alla Presidenza nel 2013 ha rappresentato una vera e propria svolta riguardo la gestione della politica estera del Paese. Sebbene Rouhani non sia assolutamente estraneo all’establishment politico e religioso iraniano, ha sempre dimostrato un atteggiamento fortemente pragmatico nei confronti del perseguimento degli interessi del Paese. Per questo ha deciso di mettere in cima alle priorità della sua azione politica la piena riabilitazione dell’Iran all’interno della Comunità Internazionale. Tale obiettivo è stato perseguito non solo per accrescere la postura regionale e internazionale del Paese, ma, soprattutto, per liberare l’economia nazionale (oramai in fortissima recessione, con un tasso di disoccupazione attorno al 10-15% e un’inflazione attestata attorno al 35%) dalla morsa delle sanzioni internazionali, nella consapevolezza dell’insostenibilità di una politica oltranzista restia a porre fine Così, la firma del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) il 14 luglio 2014 e l’inizio della sua implementazione con il sollevamento della prima tranche di sanzioni lo scorso 17 gennaio hanno segnato una grande vittoria politica per il Presidente, nonché un momento importante per il ritorno dell’Iran sullo scenario politico ed economico internazionale. Grazie alla revoca di parte delle sanzioni ora Teheran può non solo beneficiare dei suoi assett economici congelati all’estero nel corso dei decenni (stimati oltre 100 miliardi di dollari), ma, soprattutto, riaprire le porte agli investitori stranieri con l’obbiettivo di riportare l’economia iraniana a essere pienamente competitiva sui mercati internazionali. In questo senso vanno letti i recenti viaggi di Rouhani in Italia e in Francia, due Paesi su cui l’Iran sta puntando non solo in chiave di rapporti bilaterali, ma anche come “testa di ponte” per ricostruire nuovi contatti con le Istituzioni Europee.

Accanto all’evoluzioni fin qui descritte, legate principalmente alla decisione da parte iraniana di negoziare con la Comunità Internazionale la rimodulazione del proprio programma nucleare, nel corso degli ultimi due anni l’Iran ha visto ampliare anche il proprio margine d’azione nel contesto mediorientale. Qui, infatti, si è venuta a creare un’insolita convergenza tra gli interessi iraniani e quelli della Comunità Internazionale (con la quale parallelamente procedevano i negoziati sul nucleare a Vienna) in seguito all’espansione dello Stato Islamico e di altri gruppi terroristici di ispirazione jihadista nei territori siriani e iracheni. Il fatto che proprio l’impegno iraniano abbia per primo supportato le istituzioni irachene nella lotta contro il Daesh ha fatto sì che si venisse a trovare questa comunione di intenti tra Comunità Internazionale e Teheran, circostanza che ha facilitato un dialogo. La manifestazione più compiuta di questo nuovo corso si è avuta con la recente decisione da parte delle Nazioni Unite di ammettere una delegazione iraniana a partecipare ai negoziati internazionali per la Siria in corso a Ginevra, che ha di fatto rappresentato un riconoscimento ufficiale del ruolo dell’Iran nella definizione dei nuovi equilibri regionali.

I mutamenti fin qui descritti sono stati seguiti con estrema preoccupazione da tutte le monarchie sunnite del Golfo Persico e, in particolare, dall’Arabia Saudita che, come già accennato, ha sempre visto nell’Iran il suo più grande antagonista nel consesso mediorientale. Il nuovo rafforzamento del rivale sciita e i possibili mutamenti degli equilibri di potere (fino a questo momento favorevoli a Riyadh) consolidatisi negli scorsi decenni nella regione, ha determinato l’adozione di un atteggiamento muscolare da parte saudita, volto a frenare con tutti i mezzi a sua disposizione il ritorno di Teheran sulla scena politica ed economica mondiale.

A ben vedere, sulla definizione della nuova politica di Riyadh è intervenuto un ulteriore fattore di cambiamento sul piano regionale. Ci si riferisce al graduale mutamento della postura degli Stati Uniti nel Medio Oriente, inaugurata a partire dal 2012 nel corso della Presidenza Obama. Negli ultimi anni, infatti, Washington ha progressivamente spostato il proprio asse strategico e di sicurezza nel quadrante Asia-Pacifico, con l’obiettivo di contenere le pulsioni espansionistiche cinesi. Questo mutamento delle priorità statunitensi ha gradualmente portato in secondo piano il contesto mediorientale, provocando grande apprensione da parte saudita (tradizionale alleato degli USA nella regione) proprio mentre pian piano si aprivano i primi, seppur piccoli, spiragli di lieve distensione nei rapporti Iran-Stati Uniti dopo la conclusione positiva dei negoziati a Vienna. Tutto questo ha contribuito a esasperare gli umori di Riyadh portando all’assunzione di una politica estera molto più spregiudicata rispetto al passato, nella convinzione di “dover fare da solo” per difendere i propri interessi dalle mire egemoniche iraniane.

E’ nel quadro fin qui descritto che va contestualizzata la decisione di Re Salman di eseguire la condanna a morte dello sceicco sciita Nimr al-Nimr. Infatti la Casa regnante, consapevole delle conseguenze che tale gesto avrebbe comportato, ha cercato di sfruttare l’esecuzione per provocare il suo rivale, nella speranza di fargli compiere un passo falso a due settimane dall’inizio dell’implementazione del JCPOA. Allo stesso tempo, l’esplosione delle violenze seguite alla morte di al-Nimr sono servite a Riyadh per dimostrare all’alleato statunitense la centralità dell’Arabia Saudita nel mantenimento dei fragilissimi equilibri regionali e per indurre Washington a un ripensamento sulla sua politica dell’area.

Al di là del piano politico-diplomatico, la partita saudita contro Teheran si sta giocando anche sul piano economico. Ci si riferisce in particolare alla nuova politica petrolifera inaugurata da Riyadh volta a contenere il prezzo del petrolio tra i 27 e i 32 dollari al barile, attraverso un costante aumento della produzione di greggio da immettere sui mercati internazionali. Tale decisione, oltre a mettere in crisi il mercato concorrente dello shale-oil, ha come obbiettivo prioritario quello di escludere l’Iran dal mercato petrolifero mondiale. La necessità saudita di bilanciare la contrazione degli introiti petroliferi senza attingere in maniera troppo decisa sulle riserve statali del Paese sta portando Riyadh a ripensare il ruolo degli investimenti esteri nell’economia nazionale. Diverse sono le opzioni prese in considerazione, dalla revisione delle politiche di ottenimento del Visto per agevolare gli investitori esteri all’eventualità di vendere il 5% delle azioni del gigante petrolifero statale Saudi Aramco, il cui valore totale stimato è di 10 trilioni di dollari. Questo tema rappresenta un terreno di dibattito all’interno delle istituzioni monarchiche tra i settori più conservatori, meno inclini a un’apertura nei confronti degli investimenti stranieri per tutelare i propri interessi e privilegi, e le frange più moderate che, al contrario, vedono in queste misure delle opportunità.

Volendo fare un bilancio, l’offensiva saudita nei confronti di Teheran non ha portato fino a questo momento ai risultati sperati. La consapevolezza delle istituzioni iraniane di quanto uno scontro aperto con Riyadh potrebbe compromettere il perseguimento degli interessi nazionali ha portato alla scelta di contenere i toni, in funzione del raggiungimento della piena riabilitazione sulla scena internazionale. Tuttavia tale postura non si è tradotta in un atteggiamento arrendevole nel confronto con Riyadh, ma è andata a rafforzare le contrapposizioni già esistenti tra i due Paesi in “teatri terzi”.

Indubbiamente, il dossier siriano rappresenta uno dei principali terreni di scontro tra Riyadh e Teheran per l’affermazione delle rispettive prerogative a livello regionale. Infatti, da un lato l’Arabia Saudita, unitamente a Qatar e Turchia, continua a sostenere le diverse milizie sunnite anti-Assad con l’obbiettivo di acuire il processo di destabilizzazione interna e mettere in difficoltà il regime di orientamento sciita. Dall’altro, l’intervento militare iraniano continua a evitare la caduta del Regime, che gli equilibri regionali possano pendere a favore delle potenze sunnite della regione.

Sempre nel contesto mediorientale, la crisi yemenita sembra ormai destinata a divenire uno dei principali banchi di prova per Teheran dove testare le proprie capacità di incidenza sugli equilibri regionali. Sebbene in questo momento l’idea di un coinvolgimento militare non venga paventata dall’establishment iraniano, il dossier yemenita è sempre più utilizzato da Teheran per mettere in difficoltà Riyadh sul piano politico e diplomatico, attraverso la denuncia delle continue violazioni sul piano umanitario perpetrate dai sauditi nel corso delle operazioni militari. In questo modo l’Iran sta cercando di indebolire l’azione saudita nella speranza che le milizie Houthi (di orientamento sciita) possano aumentare la propria influenza in Yemen e quindi far pendere l’ago della bilancia degli equilibri regionali a beneficio di Teheran.

In conclusione, sebbene in questo momento l’ipotesi di uno scontro militare diretto tra Arabia Saudita e Iran sembri piuttosto remota, la contrapposizione tra i due Paesi rischia di divenire un ulteriore elemento di destabilizzazione dell’intero Medio Oriente. L’utilizzo degli scenari di crisi regionali come campo di battaglia per l’affermazione delle rispettive proiezioni di potenza rischia, infatti, di rendere ancora più difficile il raggiungimento di una risoluzione di tali conflitti sul piano negoziale. Inoltre, il perdurare dello scontro Riyadh-Teheran, destinato a procrastinarsi nel tempo, parallelamente alla completa riabilitazione internazionale dell’Iran e al suo rafforzamento nella regione, non rende possibile escludere la nascita di nuovi focolai di crisi nel consesso mediorientale in cui i due Paesi, attraverso la gestione delle rispettive reti di alleanze regionali, possano cercare di minare gli interessi reciproci. Infine, l’esasperazione dei toni tra Iran e Arabia Saudita rischia di avere delle forti ripercussioni sulla dialettica dello scontro sciiti/sunniti, che ha sempre costituito una delle più pesanti ipoteche sulla stabilità dell’intera regione.

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