Al-Shabaab al bivio
Africa

Al-Shabaab al bivio

Di Ce.S.I. Staff
10.08.2015

Da circa un anno, al-Shabaab, il gruppo jihadista attivo in Africa orientale, è percorso da significative tensioni interne e da una crescente competizione tra i suoi leader più influenti. Infatti, l’uccisione dell’emiro Ahmed Abdi Godane, avvenuta il 1º settembre 2014, ha esacerbato le divisioni tra i prosecutori della sua linea politica ed operativa e i suoi critici, decisi a indirizzare definitivamente il movimento verso una direzione trans-nazionale e non prettamente somala. In questo senso, l’ascesa al ruolo di emiro di Ahmed Omar, cugino diretto di Godane e membro del clan somalo Diir, non è stata ben accetta da tutte le fazioni e rischia, con il tempo, di creare una frattura in grado di minacciare l’unità stessa del gruppo.

Nelle intenzioni del vecchio emiro, il massiccio ingresso di foreign fighters (soprattutto yemeniti, sudanesi e anglo-americani) e l’espansione delle attività in Kenya, al pari di un rapporto sempre più stretto con il network qaedista, dovevano essere funzionali alla sedimentazione del proprio potere personale e alla creazione di una forza che, pur continuando ad agire prevalentemente in Somalia, sarebbe stata quanto più indipendente possibile dall’influenza dei leader clanici e dei signori della guerra somali. Tale condotta, spesso applicata con metodi repressivi e con l’eliminazione di qualsiasi opposizione interna, ha condotto ad un allontanamento dell’ala pan-somala di al-Shabaab e della vecchia leadership erede dell’esperienza dell’Unione delle Corti Islamiche (UCI). Basti pensare che, pur di sfuggire ai sicari di Godane, personalità del calibro di Sheik Atom (il Comandante delle milizie nelle montagne settentrionali di Galgala nonché principale responsabile del traffico di armi con l’Eritrea), di Sheik Aweys (punto di riferimento dell’islamismo politico salafita somalo), e di Sheikh al-Turki, tra i fondatori sia di al-Shabaab che della Brigata Ras Kamboni, hanno preferito consegnarsi al Governo di Mogadiscio e abbandonare, per il momento, la lotta armata.

La strategia di Godane è risultata controproducente, in quanto ha trasformato gradualmente al-Shabaab da un derivato jihadista dell’UCI, dunque rappresentativo di una porzione della popolazione e dei clan somali, ad un’organizzazione guidata dal solo clan Diir (peraltro minoritario nel mosaico sociale nazionale) e governata da combattenti stranieri, in un momento in cui la lenta ma graduale avanzata di AMISOM (African Union Mission in Somalia) ha privato al-Shabaab di importanti e ricchi centri urbani, quali Baidoa ed i porti di Kisimayo e Barawe, costringendo il movimento a ripiegare nelle aride aree rurali del sud della Somalia.

Ahmed Omar si è posto come continuatore della linea di Godane, pur non avendo la sua stessa forza personale, il suo stesso carisma e dovendo confrontarsi con una situazione sul campo precaria. In questo senso, la rinnovata catena di attentati che è tornata a colpire Mogadiscio (3 attacchi tra il 21 e il 27 giugno scorsi contro le Forze Armate somale ed il convoglio dell’Ambasciatore emiratino) rappresentano il tentativo di Omar sia di destabilizzare il fragile processo di ricostruzione nazionale somalo sia, soprattutto, di dimostrare la vitalità di al-Shabaab e della sua leadership. Ad oggi, ad opporsi al corso di Ahmed Omar sono 2 correnti principali: la prima, riunita attorno all’Amniyaat (il reparto intelligence e “operazioni speciali” di al-Shabaab) e guidata dal suo capo Mahad Karatey, e la seconda, formata dall’ala politica e dagli ideologi del gruppo, guidata da Fuad Shangole. Le ragioni del dissenso tra Omar e le altre personalità di rilievo di al-Shabaab sono di natura politica e operativa, oltre che di tipo personale. Infatti, sia Shangole che Karatey ambivano a prendere il posto di Godane ed hanno condannato la modalità con cui è stata gestita la successione, ridotta quasi ad un affare interno al clan Diir e avvenuta senza una ampia consultazione di tutti i principali leader e comandanti miliziani del gruppo.

Rispetto ad Omar, Karatey intende rafforzare il potere dell’Amniyaat, aumentando il peso dell’ala militare di al-Shabaab e riducendo al minimo l’influenza della Shura e dei suoi dipartimenti (politico, media e comunicazione, operazioni militari). A ciò bisogna aggiungere l’intenzione di denunciare l’alleanza con al-Qaeda e pronunciare il bayat (giuramento di fedeltà) nei confronti dello Stato Islamico, ritenuto un brand più attraente e necessario per il rilancio del movimento jihadista africano orientale. Oltre all’affiliazione allo Stato Islamico, un ulteriore tassello del progetto di Karatey è costituito dalla definitiva trasformazione di al-Shabaab da realtà prevalentemente somala a realtà trans-nazionale. Per fare questo, il capo dell’Amniyaat vorrebbe rendere il Kenya il nuovo epicentro politico ed operativo del movimento, andando così a rafforzare il proprio potere in un’area dove non sarebbe in posizione di subalternità rispetto ad Ahmed Omar. Inoltre, l’espansione in Kenya potrebbe avvenire secondo direttrici differenti rispetto al passato, superando la tradizionale centralità dell’elemento etnico e clanico somalo. Infatti, il Kenya rappresenta un vasto bacino di opportunità per il progetto jihadista di Karatey a causa delle perduranti tensioni etnico-religiose del Paese e dell’emarginazione politica e sociale di larghe fasce della popolazione nelle regioni settentrionali e lungo la fascia costiera nei pressi di Mombasa.

Questa strategia potrebbe contare sul supporto  del Centro della Gioventù Islamica (CGI, meglio conosciuto come al-Hajira), organizzazione di base nel quartiere Majengo di Nairobi e passata dall’essere un semplice ramo keniota di al-Shabaab a gruppo autonomo, indipendente e con una propria identità precisa. La più grande intuizione del CGI è stata quella di diffondere l’ideologia jihadista al di fuori della comunità somala di Nairobi, aprendo a tutti i musulmani e stringendo alleanze con altre realtà salafite del Paese, in primis con il network attivo a Mombasa. Inoltre, a conferma dell’autonomia ideologica e operativa del CGI ci sono le modalità degli attacchi eseguiti in Kenya, focalizzati sempre più contro le Forze di Sicurezza keniote e soprattutto la popolazione cristiana, i cittadini occidentali, i loro simboli e luoghi di aggregazione (chiese, resort turistici e centri commerciali). In questo senso, esiste una linea rossa che unisce l’attentato di Westgate, i ripetuti assalti contro i casinò di Lamu e l’assalto al campus dell’Università di Garissa (oltre 100 morti, quasi tutti cristiani). In sintesi, il progetto di Karatey potrebbe essere quello di abbandonare Mogadiscio e pensare alla creazione di una realtà para-statale che includa le regioni del sud della Somalia (il famoso Jubbaland) e quelle del nord del Kenya, anche con l’aiuto di signori della guerra locali.

Inoltre, l’opposizione a Omar potrebbe costituire la base per l’avvicinamento tra Karatey e la fazione di Fuad Shangole, uomo di mediazione più che d’azione, fondamentale per favorire l’unificazione di tutte le opposizioni all’attuale emiro. Una delle maggiori colpe imputate da Shangole ad Omar è l’assenza di un progetto politico nell’azione di al-Shabaab. In questo senso, l’idea di Karatey di cercare di creare uno Stato Islamico in Africa Orientale potrebbe attirare le simpatie e il sostegno del vecchio Shangole. Con il passare del tempo le acredini tra Ahmed Omar e Karatey potrebbero sfociare in tensioni sempre maggiori, tali da non escludere un vero e proprio conflitto tra l’Amniyaat e le brigate fedeli all’emiro. Allo stesso modo, ad oggi, non sarebbe da scartare l’idea di un’eventuale scissione tra lo zoccolo duro somalo di al-Shabaab, legato al network di Al Qaeda e focalizzato sulla vecchia agenda Mogadiscio-centrica, e le milizie orbitanti attorno a Karatey, desiderose di entrare nell’orbita dello Stato Islamico e concentrate sul progetto di sedimentazione jihadista in Kenya.

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