ISIL in Afghanistan
Asia e Pacifico

ISIL in Afghanistan

Di Ce.S.I. Staff
08.04.2015

Lo scorso 27 gennaio, Abu Muhammad al-Adnani, portavoce dello Stato Islamico (IS) in Siria e in Iraq, ha ufficializzato la nascita di una branca del gruppo nella regione compresa tra l’Afghanistan e il Pakistan, nel cosiddetto territorio del Khorasan. La struttura portante del gruppo sarebbe formata principalmente da quel nucleo di talebani pachistani che, prese le distanze dal movimento del Teherik-e-Taliban Pakistan (TTP), già nell’ottobre scorso aveva pronunciato il proprio bayat, giuramento di fedeltà, ad al-Baghdadi, senza però ricevere, almeno finora, alcun riscontro. Al vertice del nuovo gruppo, sono stati nominati Hafez Saeed Khan, come Emiro, e Shahidhullah Shaid, suo vice, rispettivamente già leader dell’Agenzia Tribale Arakzai nelle FATA (Federally Administrative Tribal Areas) pakistane ed ex portavoce del TTP.

Accanto all’anima prettamente pakistana, la leadership della nuova provincia del Califfato includerebbe anche membri della militanza in Afghanistan: tra essi, Mullah Abdul Rauf Khadum (conosciuto anche come Abdul Rauf Aliza), vice emiro e responsabile del reclutamento nelle regioni meridionali afghane, rimasto ucciso a febbraio nell’Helmand in seguito ad uno strike aereo statunitense. Ex detenuto di Guantanamo (2001-2007), Khadum è sempre stato una figura di spicco tra le fila della militanza talebana, all’interno della quale ha ricoperto, dapprima, l’incarico di comandante militare ad Herat, nonché membro della scorta selezionata del Mullah Omar, e, a partire dal 2010, di governatore ombra della provincia di Uruzgan, nella parte centro-meridionale del Paese. 
I successi operativi hanno permesso a Khadum di stringere solidi legami con esponenti apicali della leadership talebana, grazie ai quali il comandante era riuscito a rafforzare il proprio prestigio tra i militanti. Tra questi, Mohammad Fazl, ex Capo di Stato Maggiore della Difesa talebano, e Abdul Qayoum Zakir, comandante militare responsabile per le operazioni contro le Forze di sicurezza internazionali nel sud dell’Afghanistan. Tuttavia, negli ultimi anni, la progressiva marginalizzazione della sua cerchia di riferimento dai vertici del movimento e il suo personale avvicinamento all’interpretazione salafita dell’Islam avevano portato ad un progressivo raffreddamento dei rapporti con la leadership talebana.

La rottura con il vertice del Mullah Omar, e il conseguente allontanamento dall’agenda da egli dettata, potrebbe aver spinto Khadum a cercare di ritagliarsi un nuovo ruolo all’interno dell’insorgenza e di creare così una realtà alternativa alla tradizionale militanza talebana. Tale interpretazione sembrerebbe trovare conferma nella presenza all’interno della leadership della branca Khorasan di altri militanti afghani estranei all’influenza della Shura di Quetta. La scelta di aderire allo Stato Islamico, dunque, sembrerebbe rispondere all’esigenza di trovare legittimità, mezzi e risorse attraverso una realtà, quella dell’IS, che si è ormai accreditata come il principale attore del panorama jihadista internazionale, assumendo, di fatto, il ruolo un tempo ricoperto da al-Qaeda.
Al momento, tuttavia, il successo della nascente provincia di IS in Afghanistan rimane ancora piuttosto limitato. La diffusione a macchia di leopardo di attività direttamente riconducibili ai miliziani jihadisti lascia intuire che l’efficacia del reclutamento si basi più su rapporti personali che su un’effettiva sensibilità del tessuto sociale alla propaganda del Califfato. Non appare casuale, infatti, che primi segnali della presenza di IS nel Paese siano stati registrati nei distretti di Kajaki, Musa Qala, Nawzad e Baghran, nella provincia dell’Helmand, zona natale di Khadum. Oltre al focolaio nel sud, il gruppo sembra aver trovato terreno fertile anche nella provincia occidentale di Farah grazie al proselitismo di 2 fratelli, Abdul Malek e Abdul Razeq, i quali avrebbero istituito un campo di addestramento per aspiranti miliziani nel distretto di Khak-e-Safayd. Se nell’Helmand e a Farah il ruolo carismatico degli ex comandanti militari risulta fondamentale per riscuotere consensi a livello locale, nel resto del Paese la presenza dello Stato Islamico è prettamente legata alla porosità dei confini e alla penetrazione di miliziani stranieri in territorio afghano.

Benché, infatti, sporadiche attività siano state rilevate nelle regioni settentrionali di Kunduz, di Jawzjan e di Sar-e-Paul, al confine con Uzbekistan e Turkmenistan, suscettibili all’ingresso di combattenti provenienti dall’Asia Centrale, le presenze più sensibili di realtà afferenti al nuovo Califfato sono state registrate al confine con il Pakistan e nelle province sudorientali di Ghazni e di Paktika dove, con l’inizio dell’Operazione ZARB-E-ZAB delle Forze Armate pakistane per cercare di contrastare la presenza talebana nelle Agenzie di Nord e Sud Waziristan, il massiccio flusso di sfollati che cercano rifugio in territorio afghano ha facilitato l’ingresso oltreconfine di circa 400 famiglie di origine araba e uzbeka, nonché l’infiltrazione di miliziani jihadisti, un tempo legati ad al-Qaeda e ora possibile bacino di reclutamento per la nascente branca Khorasan. Ben lungi dall’essere una realtà consolidata, il network del Califfato al momento sembra incontrare ancora grandi difficoltà nel trovare spazio all’interno del contesto afghano.

La morte improvvisa di Khadum, unico leader carismatico che sembrava avere effettivamente la forza di raccogliere intorno a sé un nutrito gruppo di sostenitori, potrebbe rivelarsi fatale per un eventuale rafforzamento della presenza di IS nello scenario afghano. In un Paese come l’Afghanistan, infatti, in cui l’appartenenza etnica e il legame tribale rappresentano i principi regolatori dei rapporti sociali, la mancanza di una figura carismatica che si faccia tramite della causa jihadista con la popolazione locale rende davvero problematico il radicamento dello Stato Islamico sul territorio. Inoltre, uno dei principali ostacoli a tale progetto potrebbe derivare dall’opposizione dei leader talebani, i quali guardano all’espansione dello Stato Islamico in Afghanistan come ad una minaccia per la ricostituzione del proprio Emirato Islamico autonomo e indipendente. In un momento in cui i successi contro le Forze Armate afghane rendono la militanza pienamente consapevole della propria forza, appare alquanto improbabile che la leadership talebana conceda spazio per la nascita di nuove realtà, potenzialmente concorrenziali, nel Paese, soprattutto in aree strategiche quali l’Helmand o Farah. Queste aree, infatti, non solo per composizione etnica (a maggioranza pashtun) e usanze tribali (basate sul rispetto del codice Pashtunwali), sono storiche enclave dei Talebani, ma soprattutto rappresentano un’importante fonte di finanziamento per l’insorgenza, che controlla sia la produzione di oppio (soprattutto nel distretto di Sangin, nell’Helmand), sia i traffici illeciti in transito sulle poche vie di comunicazione percorribili. Non a caso, dall’inizio dell’anno, duri scontri tra i 2 gruppi sono scoppiati nella provincia orientale di Nangharar e nelle province meridionali di Zabul e dell’Helmand, causando la morte di circa 40 miliziani.

Tuttavia, un possibile spiraglio per un maggior consolidamento della rete dell’IS nel Paese potrebbe dischiudersi a fronte dell’apparente attuale disponibilità della Shura di Quetta a riprendere il delicato, quanto controverso, dialogo con le autorità di Kabul e di Islamabad. La decisione della leadership politica talebana di aprirsi al negoziato, infatti, potrebbe suscitare la forte opposizione di molti comandanti militari, per i quali ogni compromesso con i 2 governi rappresenterebbe una potenziale minaccia per il mantenimento della propria rete di influenza, spingendoli ad aderire al Califfato di Baghdadi.

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