Le Filippine di Abu Sayyaf
Asia e Pacifico

Le Filippine di Abu Sayyaf

Di Ce.S.I. Staff
08.02.2015

La scorsa estate militanti del gruppo islamista filippino Abu Sayyaf ha giurato fedeltà al leader dello Stato Islamico, l’autoproclamatosi Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, ridestando la preoccupazione delle autorità di Manila su un possibile riacutizzarsi della minaccia jihadista nel Paese. Fondato nei primi anni '90 da Abdurajak Janjalani, accademico islamista radicalizzatosi in Arabia Saudita e reduce della guerra in Afghanistan contro l’Unione Sovietica, Abu Sayyaf nasce dal tentativo del suo ispiratore di coniugare l’interpretazione wahabita dell’Islam sunnita, in primis il concetto di jihad, ai sentimenti secessionisti storicamente presenti nei territori meridionali dell’arcipelago filippino (Mindanao, Basilan, Sulu, Tawi-Tawi e Palawan). Questa regione, conosciuta anche con il nome di Bangsamoro (il Regno dei Mori), infatti, è stata l’enclave natale dei primi movimenti indipendentisti islamici, sviluppatesi già a partire dalla dichiarazione di indipendenza dello Stato nel 1946.

Raccogliendo l’eredità di quei guerriglieri musulmani che in passato si erano opposti al tentativo da parte di potenze straniere (gli Spagnoli, prima, e gli Americani, poi) di importare il cattolicesimo nel Paese. Infatti, in questa regione i movimenti ribelli islamici si sono ben presto organizzati come gruppi armati strutturati, il Moro National Liberation Front (MNLF) e, successivamente, il Moro Islamic Liberation Front (MILF), in lotta contro il governo centrale per ottenere l’indipendenza dell’isola di Mindanao. In questo contesto, fortemente orientato all’irredentismo e sensibile al risentimento nei confronti della maggioranza cattolica, dunque, Abu Sayyaf ha mosso i primi passi, dapprima come costola di un gruppo religioso di matrice radicale impegnato in attività di proselitismo e propaganda nell’isola di Basilan (Jamaa Tableegh) e poi come gruppo autonomo che, grazie alla notorietà del suo leader, ha raccolto rapidamente consensi anche nella limitrofa penisola di Zamboanga e nelle isole di Jolo, Sulu e Tawi-Tawi.

La consacrazione all’interno del panorama insurrezionale filippino è avvenuta tra il 1991 e il 1992, in seguito all’attentato contro la M/V DOULOS, nave missionaria cristiana colpita da una granata al porto di Zamboanga, e all’uccisione del missionario italiano Salvatore Carzedda, episodi che hanno segnato l’inizio effettivo dell’operatività del gruppo. Il nome di Abu Sayyaf è stato scelto da Janjalani in onore al mujaheddin afghano Abdul Rasul Sayyaf, che aveva accolto e addestrato i combattenti stranieri durante la guerra in Afghanistan. L’esperienza maturata in Afghanistan si è rivelata preziosa per il leader di Abu Sayyaf, in termini non solo di expertise operative acquisite, ma soprattutto di contatti e rapporti personali che Janjalani è riuscito a costruire, e a consolidare nel tempo con esponenti di spicco di al-Qaeda.
Questo legame diretto con il network qaedista ha permesso al gruppo di diventare uno dei punti nodali della rete del terrorismo internazionale nel Sud-Est asiatico. Sembra ormai essere ampiamente confermato, infatti, il coinvolgimento di esponenti del gruppo filippino nel progetto Bojinka, operazione antesignana dell’attentato dell’11 settembre, ma fallita ancor prima di essere realizzata, che avrebbe dovuto portare all’esplosione di 11 aerei in volo verso gli Stati Uniti e all’uccisione di Papa Giovanni Paolo II, in visita a Manila nel gennaio del 1995. Il prestigioso cappello qaedista, inoltre, ha permesso al gruppo di stringere importanti legami con altre realtà jihadiste, operative tra la fine degli anni’90 e la prima metà del 2000, nel Sud-Est asiatico, in primis con il gruppo indonesiano Jemaah Islamiyah (JI).

La collaborazione con il gruppo indonesiano è stata fondamentale ad Abu Sayyaf per riuscire a portare a termine con successo i 3 grandi attentati che gli hanno permesso di essere annoverato tra i principali gruppi terroristici internazionali: l’attentato al Francisco Bangoy International Airport di Davao City (2003), durante il quale sono rimaste uccise 21 persone, l’esplosione del Superferry 14 nella baia di Manila nel febbraio 2004, che ha causato 116 vittime e, infine, le esplosioni simultanee nelle 3 città di Makaty City, Davao City e General Santos City, conosciute come l’attentato di S.Valentino nel 2005, che ha provocato 8 vittime e il ferimento di circa 96 persone. Con la morte di Janjalani, tuttavia, e la conseguente attenuazione del fattore ideologico, il gruppo ha progressivamente iniziato un processo di atomizzazione che, da un lato, ha favorito l’emersione di diversi leader locali (Khaddafi Janjalani, fratello minore dello storico fondatore, Isnillion Hapilon), ma dall’altro ha inevitabilmente indebolito la forza del gruppo. A partire dai primi anni 2000, inoltre, l’azione congiunta tra Forze di Manila e Stati Uniti, culminata con il lancio dell’Operazione PLATINUM (2006), sia contro i militanti filippini, sia contro la rete qaedista nel Sud-Est asiatico, ha inevitabilmente compromesso la capacità operativa del gruppo. Eliminati i comandanti operativi di più alto profilo, tra cui lo stesso Khaddafi, e venuto meno qualsiasi appiglio con il jihadismo internazionale e con le risorse da esso erogate, Abu Sayyaf ha riformulato la propria strategia, focalizzando l’agenda sulla lotta interna contro il governo centrale e dedicandosi in prima battuta ai rapimenti di cittadini stranieri a scopo di estorsione e ad attività di pirateria.

Da attore chiave del terrorismo internazionale di matrice islamica, negli ultimi 10 anni Abu Sayyaf, per obiettivi e metodologia, è diventato sempre più assimilabile ad una realtà afferente alla criminalità organizzata. La marginalizzazione dell’aspetto ideologico e le pesanti perdite subite durante i continui scontri con le forze di sicurezza di Manila (i più recenti avvenuti lo scorso novembre nell’isola di Sulu) rendono dunque poco plausibile che il gruppo filippino possa rivelarsi un canale preferenziale per il riacutizzarsi della minaccia jihadista nella regione. Nonostante la sopracitata dichiarazione di fedeltà al nuovo Califfato abbia ridestato l’attenzione internazionale sul gruppo filippino, in realtà l’iniziativa del gruppo sembrerebbe più che altro un disperato tentativo da parte dei militanti di stabilire contatti con il lucrativo network gestito dallo Stato Islamico, per trovare all’interno di esso nuovi fondi da dedicare alla lotta contro Manila.

Questa tendenza sembrerebbe trovare conferma nella recente liberazione dei 2 cittadini tedeschi, Stefan Viktor Okonek e Henrike Dielen, rapiti a Sulu lo scorso aprile e rilasciati in seguito al presunto pagamento da parte del Governo tedesco di un riscatto pari a circa 5,6 milioni di dollari. Nonostante tra le richieste preliminari per il rilascio dei 2 cittadini europei rientrasse anche il ritiro del sostegno di Berlino alla coalizione internazionale contro IS, il riscatto è bastato al gruppo per acconsentire allo scambio. Benché Abu Sayyaf non sia più in grado di essere un attore di rilievo nella rete del terrorismo internazionale, tuttavia il gruppo filippino rappresenterebbe un ottimo bacino di reclutamento per eventuali nuove realtà jihadiste che potrebbero formarsi all’interno della regione. Numerosi, infatti, sono i combattenti provenienti dal Sud Est asiatico attualmente impegnati tra le fila delle milizie salafite in Siria e in Iraq.
Il rientro di questi miliziani all’interno dei diversi Paesi di origine potrebbe riacutizzare la minaccia jihadista nell’area e andare ad alimentare quelle che al momento sono solo cellule non strutturate, ma che potrebbero ben presto trovare una nuova forma di radicamento nei territori del Pacifico.

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