Geopolitical Weekly n.202

Geopolitical Weekly n.202

Di Ce.S.I. Staff
14.01.2016

Sommario: Egitto, Indonesia, Iran, Turchia

Egitto

Lo scorso 8 gennaio, due assalitori, muniti di armi bianche, hanno assaltato la hall del Resort Bella Vista a Hurghada, località turistica situata lungo la costa del Mar Rosso. Nel corso dell’attacco sono rimasti feriti tre turisti stranieri, due di nazionalità austriaca e un cittadino svedese, mentre entrambi gli assalitori sono stati neutralizzati dalle Forze di Sicurezza egiziane.

Nonostante la rivendicazione dello Stato Islamico (IS), permangono ancora dubbi riguardo la reale paternità dell’attentato, in virtù soprattutto della ormai consolidata tendenza da parte del Califfato di assumersi la responsabilità di qualsiasi atto terroristico in grado di avere un ritorno positivo dal punto di vista propagandistico.

Inoltre, benché il panorama jihadista egiziano non sia privo di legami con il gruppo di al-Baghdadi, come testimonia l’affiliazione ufficiale tra IS e Ansar Bait al-Maqdis (realtà jihadista attiva prevalentemente nella penisola del Sinai), appare al momento poco probabile una direzione centralizzata dell’azione e quindi un collegamento diretto tra le leadership del Califfato e gli attentatori egiziani.

Al contrario, sembrerebbe maggiormente plausibile l’ipotesi di un’azione isolata che, indubbiamente, ha visto nel richiamo al jihad globale da parte del Califfo e nell’imitazione delle tattiche e degli obbiettivi da colpire la sua fonte d’ispirazione. Infatti, a dimostrazione di tale tesi contribuisce la scelta della struttura alberghiera di Hurghada, molto frequentata da turisti stranieri.

L’attacco al Resort Bella Vista, infatti, rappresenta solo l’ultimo di una serie di attentati perpetuati a discapito del settore turistico del Paese. Solo pochi giorni prima lo Stato Islamico aveva rivendicato l’attentato ai danni di un bus turistico che trasportava cittadini israeliani nei pressi della località di Giza. In  questo modo, i gruppi jihadisti egiziani riescono a colpire contemporaneamente l’Egitto, mettendone a nudo le vulnerabilità di sicurezza, e i paesi occidentali, colpendo i suoi cittadini.

L’attacco al settore turistico egiziano e il ridimensionamento degli introiti da esso derivati, al di là degli effetti fortemente negativi che sta generando sul bilancio statale, rischia di ripercuotersi direttamente sulla credibilità del Governo di al-Sisi che ha fatto della sicurezza interna, della lotta al terrorismo e del miglioramento delle condizioni economiche del Paese i tre pilastri fondamentali per il consolidamento del proprio consenso interno ed internazionale.

Indonesia

Giovedì 14 gennaio, un gruppo di uomini armati ha preso d’assalto il quartiere commerciale e finanziario di Jalan Thamrin, a Jakarta, e ha condotto una serie di attacchi coordinati nei pressi della centralissima Thamrin Street, causando la morte di due persone (un cittadino indonesiano e un canadese). La rapidità dell’intervento delle autorità indonesiane è riuscita a limitare al massimo l’azione del commando e a neutralizzare la minaccia in circa tre ore. Nell’assalto, infatti, durante il quale due attentatori hanno fatto detonare le proprie cinture esplosive, sono rimasti uccisi cinque assalitori. L’attentato avrebbe dovuto colpire obiettivi turistici e luoghi frequentati da cittadini stranieri, per cercare di danneggiare uno dei settori chiave per l’economia del Paese ed indebolire la credibilità del governo centrale. Non appare casuale, infatti, che i diversi gruppi di fuoco abbiano cercato di prendere d’assalto un caffè della catena statunitense Starbucks e uno dei principali centri commerciali della capitale indonesiana.

Benché apparentemente rivendicato dallo Stato Islamico, l’episodio sembra essere più verosimilmente l’azione di militanti estremisti locali, ultimi eredi di quelle realtà jihadiste indonesiane che nei primi anni del Duemila avevano compiuto una serie di attentati tra Bali e Jakarta. Alcuni di questi, capeggiati dal leader radicale conosciuto con il nome di Santoso, nei mesi passati aveva già dichiarato fedeltà all’autoproclamatosi Califfo Abu Bakr al-Baghdadi. Tuttavia, come dimostrato dalle stesse difficoltà logistiche ed operative riscontrate in quest’occasione, il panorama militante indonesiano risulta ancora non solo profondamente frammentato ma soprattutto non maturo per portare a termine un’azione sistematica nel Paese. L’affiliazione allo Stato Islamico, dunque, sembra essere ancora il tentativo di beneficiare del ritorno propagandistico internazionale per cercare di dare maggior forza alla propria agenda locale.

Tuttavia, gli eventi di Jakarta hanno drammaticamente riacceso l’attenzione sull’effettiva possibilità che il Sudest asiatico, ed in particolare l’Indonesia, torni ad essere uno dei fronti più caldi del terrorismo di matrice radicale. Non è possibile escludere, infatti, che le reti jihadiste attuali, seppur oggi residuali e costrette a rifugiarsi nelle zone più impervie del Paese per sfuggire alla cattura da parte delle Forze di sicurezza, possano rappresentare un valido network per quei militanti (circa 700) che attualmente combattono tra le fila di IS in Siria e che, un giorno, potrebbero tornare in patria. Una volta rientrati nella regione, infatti, questi combattenti potrebbero non solo cercare di mettere a disposizione l’expertise acquisita ma soprattutto fornire una nuova spinta ideologica, affievolitasi in circa un decennio di impotenza, per rinvigorire il jihad in un contesto tanto sensibile quanto quello asiatico.

Iran

Lo scorso 13 gennaio, le Guardie della Rivoluzione iraniane (Iranian Revolutionary Guard Corps – IRGC, in farsi Pasdaran) hanno fermato due piccole unità navali della Marina statunitense in transito nel Golfo Persico e trattenuto i dieci marinai a bordo. Utilizzate in genere per compiti di pattugliamento e di controllo principalmente nelle acque litoranee, le due imbarcazioni erano in transito per motivi esercitativi verso il Bahrein quando, per problemi tecnici, hanno sconfinato nelle acque territoriali dell’Iran. La scelta di porre in stato di fermo l’equipaggio non è stata tanto una decisione del governo di Teheran quanto l’iniziativa delle IRGC, le quali, espressione delle istanze ultra-conservatrici, guardano con profondo scetticismo alla politica di dialogo con Washington inaugurata dall’attuale Presidente, Hassan Rouhani. La richiesta di ricevere scuse ufficiali da parte degli Stati Uniti prima di procedere al rilascio, infatti, sembra essere stato il tentativo fallito dei Pasdaran di utilizzare il pugno di ferro nella gestione di una vicenda che avrebbe potuto rappresentare una seria crisi nelle già complicate relazioni tra Teheran e Washington.

Benché i contatti diplomatici tra il Ministro degli Esteri Javad Zarif e il Segretario i Stato John Kerry abbiano permesso di risolvere l’incidente in tempi piuttosto brevi, la vicenda ha messo in evidenza come la gestione dei rapporti con gli Stati Uniti rappresenti un punto ancora particolarmente dolente per il governo iraniano. Nonostante il processo di apertura verso la Comunità Internazionale, intrapreso in questi due anni dall’attuale esecutivo e sugellato dalla firma dell’accordo sul nucleare dello scorso 14 luglio, all’interno delle sfere istituzionali iraniane si è cristallizzata una profonda dialettica tra le forze pragmatiste vicine a Rouhani e gli ambienti più tradizionalisti, che guardano al dialogo con gli Stati Uniti come ad una seria minaccia per la salvaguardia dei propri interessi, consolidatisi in quasi quarant’anni di isolamento internazionale. Questa contrapposizione, tuttavia, potrebbe conoscere significativi sviluppi nel prossimo futuro, quando l’effettiva implementazione dell’accordo nucleare porterà la Comunità internazionale a porre termine al regime sanzionatorio fino ad ora imposto all’Iran. I benefici, economici e sociali, che sembrerebbero destinati a derivare dal sollevamento delle sanzioni, infatti, potrebbero erodere l’attuale forza delle forze ultra-conservatrici in favore delle ali maggiormente riformiste, incrementando il consenso nei confronti dell’attuale esecutivo e, di fatto, consentendo a quest’ultimo di portare avanti con maggior facilità un’agenda improntata alla normalizzazione dei rapporti e al reinserimento di Teheran nello scenario internazionale.

Turchia

Lo scorso 12 gennaio, presso il distretto Sultanahmet di Istanbul, un attentato suicida ha provocato la morte di 10 turisti tedeschi e il ferimento di altre 15 persone. L’attentatore, un ragazzo siriano di origine saudita, ha fatto detonare la propria cintura esplosiva nelle vicinanze di un piccolo assembramento di turisti nell’area compresa tra l’Obelisco di Teodosio e la Fontana Tedesca, a metà strada tra la Moschea Blu e il Museo di Hagia Sofia, in una delle zone ad alta densità di visitatori stranieri nella capitale. Secondo la prima ricostruzione dell’accaduto, l’attentatore si è scagliato contro il gruppo di turisti in seguito all’attenzione di un poliziotto, insospettito dal suo comportamento e in procinto di verificare i suoi documenti e di perquisirlo. Dunque, esiste la possibilità che il vero obbiettivo dell’attacco potesse essere la Moschea Blu oppure il Museo di Hagia Sofia, dove si registra una maggiore densità di persone. L’attentato è stato ufficialmente rivendicato dallo Stato Islamico (IS), anche se il governo di Ankara non ha emesso alcuna dichiarazione a riguardo. L’azione di IS può essere interpretata come la rappresaglia per il recente rilancio dell’azione militare turca contro le istallazioni del Califfato in Siria. Infatti, a partire dal 18 novembre scorso, dopo una lunga serie di colloqui con gli Stati Uniti, Ankara ha intensificato la campagna aerea nel nord della Siria al fine di indebolire le posizioni di IS lungo una direttrice di 100 km che parte dal confine turco e si propende in territorio siriano lungo il corso del fiume Eufrate.

Si tratta del secondo attacco in territorio turco ufficialmente rivendicato dallo Stato Islamico, dopo quello di Soruç del 20 luglio scorso in cui persero la vita 33 persone. Tale circostanza potrebbe radicalmente modificare la strategia e l’atteggiamento sinora adottati da Ankara nei confronti della crisi siriana e del contrasto alle organizzazioni jihadiste, talvolta giudicato ambiguo e volutamente poco incisivo. Infatti, sino a questo momento, il Presidente Erdogan ed il suo entourage politico hanno disposto un maggior impiego della forza militare per colpire le istallazioni e i gruppi armati curdi rispetto agli obbiettivi dello Stato Islamico. A questa strategia, resa necessaria sia per colpire presunte basi del PKK sia per impedire il consolidamento di un fronte unitario curdo nel nord della Siria, occorre aggiungere le accuse di connivenza tra autorità turche e miliziani del Califfato avanzate dal Presidente siriano Bashar Assad e dalla Federazione Russa. Secondo questi ultimi, la Turchia non solo faciliterebbe l’approvvigionamento jihadista di uomini, mezzi ed equipaggiamento attraverso il proprio confine, ma sarebbe seriamente collusa con il traffico di petrolio alla base del finanziamento del Califfato.

In ogni caso, una eventuale escalation degli attacchi di IS peggiorerebbe ulteriormente il quadro di sicurezza interno della Turchia, reso già critico dalle attività del PKK e dei gruppi eversivi di matrice marxista-leninista. Anche sotto il profilo internazionale, l’inasprimento dello scontro tra il Califfato ed Ankara potrebbe spingere quest’ultima ad aumentare la portata e l’intensità della propria attività militare in Siria.

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