Siria: il fronte caldo di Latakia
Medio Oriente e Nord Africa

Siria: il fronte caldo di Latakia

Di Staff Ce.S.I.
19.06.2014

Nell’attuale fase di stallo che caratterizza la crisi siriana, nel corso degli ultimi 2 mesi si è aperto un nuovo fronte di scontro tra le forze lealiste e i ribelli.
Infatti, in risposta alle vittorie da parte del regime di Assad a Qalamoun, al confine con il Libano, e nella regione di Aleppo, il fronte ribelle, verso la fine di marzo, ha iniziato una nuova offensiva nella regione costiera di Latakia, area di grande importanza strategica e simbolica per essere la terra di origine della famiglia Assad, per offrire un controllo sullo sbocco al mare e, infine, per costituire, assieme a Damasco, il principale centro nevralgico del regime. L’operazione, iniziata il 21 marzo scorso e denominata “Le rovine della guerra” (dall’ottava Sura del Corano), ha portato i ribelli alla conquista di Kasab, villaggio a maggioranza armena al confine con la Turchia. La risposta del regime non si è fatta attendere e nei giorni seguenti si sono intensificati i bombardamenti aerei sia sulla stessa Kasab sia sul vicino villaggio di al-Sakhra.

Durante queste operazioni un MIG-23 dell’Aeronautica Siriana è stato abbattuto dalla contraerea turca dopo che l’aereo, secondo le accuse di Ankara, ne aveva violato lo spazio aereo per seguire la ritirata dei ribelli. Grazie a questa offensiva, in poche settimane le forze ribelli sono riuscite a conquistare alcuni villaggi nell’area tanto che il regime è stato costretto a richiamare diverse forze impiegate su altri fronti. Con queste forze i lealisti hanno arrestato l’offensiva dei ribelli, grazie soprattutto alla riconquista di Burj 45 (Torre45), snodo strategico su una collina che domina la strada che da Kasab porta verso Latakia, occupata in precedenza dai ribelli.
Nonostante questa battuta d’arresto, le milizie antigovernative sono comunque riuscite ad ottenere alcuni significativi successi: in primo luogo, l’uccisione di Hilal Assad, cugino del Presidente, comandante dei lealisti nella regione di Latakia. Tuttavia, uno degli obiettivi principali dell’offensiva ribelle, il tentativo di attaccare al cuore del regime, nelle roccaforti alawite e nei luoghi di origine del clan Assad, al momento non è stato raggiunto.

Per arginare l’offensiva ribelle, il regime ha impiegato forze regolari e milizie, ma non Hezbollah. Infatti, al contrario delle battaglie di Qusayr e Qalamoun, entrambe avvenute in regioni limitrofe al confine con il Libano, la “battaglia di Latakia” era logisticamente impegnativa e per di più troppo dispendiosa da un punto di vista politico per il Partito di Dio, già enormemente sovraesposto in Siria e per questo sempre più attaccato sul fronte interno.
A Latakia, al fianco del regime combattono, pertanto, altre milizie. “Muqawama Suriya” (Resistenza Siriana), formazione composta principalmente da alawiti e da sciiti duodecimani, comandata da Mihrac Ural (anche noto come Ali Kayal) e attiva anche nelle zone di Idlib, Homs e Aleppo. Questa formazione ha svolto un importante ruolo di supporto alle forze lealiste nella riconquista della Burj 45. La Brigata Baath, attiva anche ad Aleppo comandante, Hussam Ibrahim Khadra, ucciso a Latakia nel mese di aprile. Suqur al-Sahara (Falconi del Sahara), una sorta di milizia “d’élite” del regime utilizzata in passato nella regione di Deir ez-Zor. Per quanto riguarda lo schieramento ribelle, l’offensiva è stata guidata da Ahrar al- Sham, una delle formazioni di punta del Fronte Islamico, ombrello sotto il quale si sono raccolte numerose forze salafite, nato alla fine del 2013 da un’iniziativa dei Paesi del Golfo (Arabia Saudita in primis).

Ahrar al-Sham, che conta tra i 2.500 e i 3.000 miliziani, è stata costituita proprio nella regione di Latakia nella seconda metà del 2012 da Abu Omar al-Jamil. Il comandante militare della milizia, Abu Musa al- Shishani, che ha guidato l’assalto finale al villaggio di Kasab, è un mujahideen ceceno. Vi è poi la milizia Harakat Sham al-Islam, un’altra organizzazione salafita. Il fondatore di questo gruppo armato è stato Abu Ahmad al-Muhajir, jihadista marocchino, membro di al-Qaeda ed ex detenuto di Guantanamo che ha combattuto nella battaglia di Tora Bora in Afghanistan nel 2001, rimasto ucciso l’estate scorsa in un combattimento in Siria. Proprio grazie alle origini del suo fondatore, questa milizia è costituita principalmente da marocchini. Al momento, negli scontri a Latakia non sembra molto attivo il Fronte dei Rivoluzionari Siriani (FRS) altro ombrello di milizie, nato a fine 2013 da una costola del Free Syrian Army, che raccoglie 14 gruppi tra islamisti e salafiti. Di fatto l’FRS è nato quasi in contemporanea al Fronte Islamico, su input principalmente saudita, con lo scopo di combattere le forze regolari, ma, soprattutto, di “sgonfiare” il Free Syrian Army, sempre più controllato dalla Fratellanza Musulmana (arcinemico dell’Arabia Saudita), e di arrestare l’influenza di ISIS (Stato Islamico in Iraq e nel Levante) in territorio siriano.

Il Fronte Islamico è uno dei maggiori beneficiari dell’assistenza internazionale in termini di armi ed addestramento. I suoi miliziani si addestrano in Turchia ed Arabia Saudita e ricevono armi ed equipaggiamenti attraverso il confine turco. Da qualche mese, all’organizzazione sono stati forniti attraverso l’Arabia Saudita missili controcarro TOW. Una tale strategia nasce dalla volontà saudita (e degli Stati Uniti) di arginare la presenza di ISIS, ritenuto il gruppo più pericoloso nel panorama ribelle siriano, e di evitare che la sua ferocia e la sua unilateralità finiscano con l’alienare il supporto di una cospicua fetta della popolazione sunnita per la causa ribelle, favorendo così il regime.

Resta l’ambiguità di fondo americana e saudita nei confronti dell’altra realtà qaedista siriana, ovvero Al Nusra. Difatti, nonostante i legami diretti con la leadership centrale di Al Qaeda e le proprie ramificazioni in tutto il Paese, Al Nusra non è in questo momento ritenuta pericolosa quanto ISIS. Un atteggiamento, appunto, ambiguo se si pensa che fino a poco tempo fa, soprattutto a Washington, la si pensava in modo molto diverso rispetto ad Al Nusra. Ma l’ambiguità e le incertezze hanno del resto sempre caratterizzato l’approccio americano alla guerra civile siriana, perennemente in bilico tra la voglia di “pensionare” Assad e la consapevolezza di non poter contare su dei “pensionatori” laici e liberali.

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