Geopolitical Weekly n.165

Geopolitical Weekly n.165

Di Enrico Mariutti e Alberto Parisi
04.12.2014

Sommario: Egitto, Israele, Moldova, Russia

Egitto

Il 29 novembre, l’ex Presidente egiziano, Hosni Mubarak, è stato assolto dall’accusa di corruzione e prosciolto dall’accusa di complicità in omicidio per la morte di 239 manifestanti nel corso delle proteste del 2011 che portarono alla sua destituzione. Per quanto riguarda il secondo capo d’imputazione, la Corte d’Assise del Cairo ha motivato la sentenza con la non processabilità di Mubarak. La sentenza ha diviso l’opinione pubblica nazionale, con i gruppi di sostenitori ed avversari dell’ex-Presidente che hanno manifestato la propria gioia o rabbia per le strade e piazze del Paese. I manifestanti anti-Mubarak al Cairo, circa 2.000, sono stati dispersi dalla Polizia.

Tre giorni dopo, un altro tribunale egiziano ha invece condannato a morte 188 sostenitori dei Fratelli Musulmani, giudicati colpevoli dell’assalto a un commissariato di polizia durante gli scontri dell’agosto 2013, quando i militari repressero le proteste degli islamisti per la destituzione di Mohamed Morsi provocando diverse centinaia di vittime. Le due sentenze appaiono esemplificative di come la priorità del nuovo establishment di potere, con al vertice il Presidente Abdel Fattah al-Sisi, preveda la neutralizzazione della Fratellanza Musulmana e il tentativo di porre fine agli sconvolgimenti della fase rivoluzionaria.

Nonostante il persistere di una forte polarizzazione politica all’interno della società egiziana, le dure misure di sicurezza interna adottate dal governo sembrano aver avuto successo nell’inibire le manifestazioni di dissenso pubblico verso le Forze Armate e il Presidente al-Sisi. Infatti, le proteste sia dei liberali sia delle frange islamiste legate alla Fratellanza Musulmana hanno visto una scarsa partecipazione popolare.

Israele

Il 3 dicembre, il Parlamento israeliano ha votato per il proprio auto-scioglimento, sancendo l’apertura di una crisi politica che porterà Israele a nuove elezioni legislative, che si terranno presumibilmente nel marzo 2015. Il giorno precedente Benjamin Netanyahu, da 20 mesi alla guida di un esecutivo di coalizione formato dai partiti di destra del Likud, di Yisrael Beyteinu, di HaBayit HaYehudi e dai centristi di Yesh Atid e Hatnuah, aveva dichiarato di voler andare al voto per garantirsi un nuovo mandato che godesse di una maggiore legittimazione popolare. Netanyahu aveva contestualmente esautorato i leader centristi, Yair Lapid e Tzipi Livni, accusandoli di essere fautori di un “golpe interno” al governo e alla proposta avanzata dal Primo Ministro di una Legge Fondamentale (Costituzione) che definisca Israele come lo “Stato della Nazione ebraica”. Il Premier uscente ha inoltre stigmatizzando l’opposizione ai piani di ampliamento degli insediamenti in Cisgiordania e le loro posizioni, giudicate troppo morbide, nei confronti dell’Iran, dei palestinesi e riguardo la difesa della sovranità israeliana sull’intera città di Gerusalemme.

In vista del voto, sono iniziati i contatti per la definizione delle future alleanze elettorali. Qualora si concretizzasse, la probabile formazione di un blocco secolarista e moderato, composto da Yesh Atid, Hatnuah e Partito Laburista, avrebbe come elemento fondante la ripresa dei colloqui con l’Autorità Nazionale Palestinese, il congelamento nelle concessioni per la costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania e l’indicazione della via diplomatica quale priorità per la soluzione del conflitto, oltre che l’obiettivo di migliorare le relazioni con Stati Uniti e Paesi europei, deterioratesi nel corso degli anni di governo Netanyahu. Sul fronte opposto, il rinnovo dell’alleanza tra i tre partiti di destra dell’esecutivo uscente, alla quale potrebbe aggiungersi una nuova formazione guidata da Moshe Kahlon, ex ministro del Likud, sancirebbe l’unione tra i principali fautori della linea dura verso i rappresentanti palestinesi e l’Iran, oltre che della prosecuzione della costruzione di unità abitative negli insediamenti in Cisgiordania.

Una vittoria della destra nazionalista, accreditata di un ampio margine di vantaggio dai sondaggi, sancirebbe la definitiva marginalizzazione del Partito Laburista, che per decenni ha governato il Paese, e dei movimenti centristi di più recente formazione, che non sono riusciti a trasformare i passati successi elettorali in un blocco politico stabile. La destra, di contro, rafforzerebbe la sua attuale egemonia sul panorama politico israeliano e, in caso si verificasse l’ascesa dei nazionalisti religiosi guidati da Naftali Bennett, avrebbe la forza per implementare un cambiamento legislativo finalizzato a modificare la natura stessa dello Stato, riducendo in maniera sostanziale l’eredità secolarista e socialdemocratica dei padri fondatori.

Moldova

Il 30 novembre si sono tenute le elezioni legislative in Moldova, i cui risultati hanno confermato la polarizzazione dell’opinione pubblica tra chi vuole il proseguimento del percorso di integrazione con l’Unione europea e chi è favorevole all’ingresso nell’Unione Euroasiatica. La coalizione di governo uscente, formata dai tre partiti europeisti Partito Liberale Democratico, Partito Democratico e Partito Liberale Riformista, ha ottenuto il 45% delle preferenze, che gli garantiranno la maggioranza dei seggi in Parlamento. La lista più votata è stata però quella del Partito Socialista, che con un programma apertamente filorusso ha ottenuto il 20% dei suffragi. Il Partito dei Comunisti, storica espressione della sinistra moldava e fautore di un compromesso tra le aspirazioni europeiste e i legami politici ed economici con Mosca, è arrivato terzo con il 17% dei voti. L’affluenza alle urne è stata pari al 56% degli aventi diritto.

Nonostante l’affermazione del blocco europeista, il futuro geopolitico della Moldova rimane ancora incerto. Sia la Russia che l’Unione Europea stanno esercitando forti pressioni sul Paese: Bruxelles per implementare e approfondire i legami sanciti con la firma dell’Accordo di Associazione e il trattato di libero scambio del giugno 2013, Mosca per spingere la Moldova nell’orbita dell’Unione Euroasiatica. Mentre l’Ue ha stanziato, nella cornice dell’accordo, fondi per iniziative tese a favorire la circolazione di beni, servizi, capitali, persone e per il finanziamento di progetti di promozione della trasparenza e la democrazia, Mosca sta attuando il blocco alle importazioni per numerosi prodotti alimentari moldavi, con gravi conseguenze per il Paese. Inoltre, il Cremlino può inoltre contare sulla leva politica rappresentata dal suo sostegno al secessionismo della regione orientale della Transnistria, all’interno della quale sono presenti circa 2.000 militari russi.

L’economia moldava, la meno sviluppata del Vecchio Continente, è fortemente dipendente dagli investimenti stranieri e dalla delocalizzazione delle imprese, sia russe che comunitarie, e ogni scelta netta tra Mosca e Bruxelles rischierebbe di comprometterne il suo fragile equilibrio. Dunque, nel prossimo futuro i toni della retorica politica tra partiti europeisti e partiti filo-russi potrebbero farsi sempre più duri e assertivi, con il rischio di degenerare in forme di protesta e opposizione reciproche aspre e violente.

Russia

Lo scorso martedì il Presidente russo Vladimir Putin ha annunciato la possibilità di interrompere le trattative per la costruzione di South Stream, il gasdotto progettato per portare il gas russo nel sud dell’Europa attraverso il Mar Nero e i Balcani.

L’interruzione del progetto, che dovrà essere confermata nei prossimi giorni, arriva dopo mesi in cui l’Unione Europea ha fatto pressioni sulla Bulgaria, uno dei paesi di transito del gasdotto, per congelare l’inizio dei lavori, adducendo motivazioni prettamente giudico-burocratiche, quali il rispetto dei parametri del “Terzo Pacchetto Energia”.

L’annullamento della costruzione di South Stream provocherebbe all’Unione Europea un importante vuoto nelle forniture programmate, in quanto il gasdotto è stato progettato per trasmettere oltre 60 miliardi di metri cubi l’anno di gas in due direzioni, una verso l’Austria e una verso l’Italia.

Il TAP (Trans Adriatic Pipeline), ufficialmente concorrente di South Stream, pur potendo contare su fonti di approvvigionamento diverse dalla Russia, quali l’Azerbaijan, e quindi su un vantaggio strategico legato alla diversificazione dei bacini di rifornimento, ha dimensioni decisamente più contenute (10 miliardi di metri cubi l’anno) e difficilmente espandibili, e quindi non appare sufficiente per colmare il vuoto causato dall’eventuale conferma della chiusura del progetto South Stream.

Quindi, qualora l’Unione Europea non annunci un piano infrastrutturale alternativo (potenziamento delle rotte energetiche Nord-Sud, potenziamento della capacità di ri-gassificazione del GNL) e qualora l’annullamento del progetto venga confermato, non è chiaro quale sarà la strada che i Paesi europei percorreranno per garantirsi le forniture di gas necessarie nei prossimi decenni.

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