Geopolitical Weekly n.162

Geopolitical Weekly n.162

Di Enrico Mariutti e Alberto Parisi
13.11.2014

Sommario: Cina, Egitto, Ucraina, Yemen

Cina

Domenica 9 novembre ha preso il via a Pechino il 22° vertice APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation), che ha riunito per una settimana i leader dei 21 Paesi della regione del Pacifico.
Numerosi sono stati i temi discussi durante gli incontri: la duplice proposta di Stati Uniti e Cina per l’istituzione di un’area di libero scambio nel Pacifico (quella cinese, la Free Trade Area of the Asia-Pacific – FTAAP - aperta a tutti i Paesi dell’area; quella americana, la Trans Pacific Partnership – TPP - con l’esclusione di Russia e Cina), la difesa dei diritti umani, la tutela dell’ambiente (con la conclusione dello storico accordo tra Washington e Pechino per la riduzione delle emissioni), la questione dei delicati equilibri di sicurezza all’interno della regione.
Emblematico in materia è stato l’accordo tra USA e Cina per l’istituzione di un “military-to-military confidence-building mechanisms”, volto a disinnescare eventuali crisi regionali attraverso la notifica preventiva riguardo ad attività nella regione, quali esercitazioni militari, e la stesura di un codice di condotta da adottare in occasione di incontri ravvicinati tra aerei e navi delle rispettive Forze Armate.
Nonostante questi incoraggianti risultati, il vertice non ha affrontato le questioni che rappresentano gli effettivi fattori di criticità per la stabilità regionale: in primis le numerose dispute territoriali incrociate tra i diversi Paesi e le storiche tensioni tra Cina e Giappone.
La mancata discussione su temi fondamentali per gli equilibri nell’area, quali il diritto marittimo in materia di delimitazione delle acque territoriali e di diritti di sfruttamento e di esplorazione all’interno delle Zone Economiche Esclusive nazionali, infatti, sembrerebbe minimizzare le premesse del vertice, annunciato come un’occasione per la distensione dei rapporti tra i Paesi membri e, soprattutto, tra Pechino e Washington. Al di là delle roboanti dichiarazioni, dunque, il summit non solo lascia insoluti i principali dossier regionali, ma sembrerebbe anche essere un’ulteriore conferma di quanto l’influenza e il peso, soprattutto economico, del sistema cinese nella regione permettano al governo di Pechino di scongiurare che i punti più spinosi per il proprio interesse nazionale possano diventare oggetto di un eventuale tavolo negoziale internazionale.

Egitto

A 20 giorni dai due attentati jihadisti che il 28 ottobre avevano provocato la morte di 31 militari nel Sinai, una nuova escalation di violenza ha investito l’Egitto. Il 12 novembre quattro imbarcazioni con a bordo uomini armati hanno attaccato una nave della Marina Militare egiziana, 70 chilometri al largo della città mediterranea di Damietta. Nonostante le autorità egiziane non abbiano ancora reso noti i dettagli dell’assalto, secondo le prime ricostruzioni gli attentatori sarebbero stati almeno 36: quattro sarebbero stati uccisi nello scontro a fuoco con i militari de Il Cairo, mentre 32 sarebbero stati arrestati. Tra le Forze egiziane vi sarebbero invece cinque feriti e otto dispersi. Tre diversi attacchi, avvenuti il 12 e il 13 novembre, hanno inoltre interessato l’area di al-Arish, prossima alla frontiera con la Striscia di Gaza, causando la morte di 2 agenti di polizia e di 3 soldati. Un ordigno è infine esploso, sempre nella giornata del 13, nella metropolitana de Il Cairo, provocando decine di feriti. Al momento non vi sono state rivendicazioni ufficiali, ma la matrice jihadista degli attentati sembra essere la più accreditata.

Gli attacchi sono avvenuti dopo che il 10 novembre la principale organizzazione jihadista del Sinai, Ansar Beit al-Maqdis, ha giurato fedeltà all’autoproclamato califfo dello Stato Islamico, Abu Bakr al-Baghdadi. Questi ultimi attentati dimostrerebbero la volontà dei terroristi islamici di mantenere alto il livello dello scontro con il governo egiziano e di aprire nuovi fronti. Nonostante le misure adottate da Il Cairo nella penisola, quali la dichiarazione dello stato d’emergenza nel Sinai e l’istituzione di una fascia di sicurezza alla frontiera con la Striscia di Gaza, l’area resta in larga parte fuori dal controllo dello Stato: le ampie distese desertiche e l’insorgenza beduina rendono il Sinai l’ideale campo per la battaglia ideale contro le autorità egiziane.

Ucraina

A due mesi dalla firma del cessate il fuoco e dell’accordo di Minsk, il 2 novembre si sono tenute le elezioni nelle autoproclamate repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk. Il voto, riconosciuto da Mosca, ma ritenuto non valido da Ucraina, Unione Europea e Stati Uniti, ha visto l’affermazione dei leader separatisti Alexander Zakharchenko e Yuri Sivokonenko. Le consultazioni erano state indette in risposta alle elezioni parlamentari ufficiali ucraine organizzate da Kiev lo scorso 26 ottobre, con l’obiettivo di dare legittimità alle istituzioni create dai ribelli nei territori contesi.
Alla tensione diplomatica generata dalle contestate elezioni ha fatto seguito un aumento delle attività militari tra Forze ucraine e ribelli filorussi nelle regioni orientali del Paese. Nonostante la tregua fosse stata violata più volte da entrambe le parti, la presunta notizia dell’invio di truppe e mezzi militari nel Donbass da parte di Mosca alimenta i timori di un’ulteriore escalation del conflitto. Interesse dei separatisti sarebbe, più che il lancio di una nuova offensiva, il consolidamento delle attuali posizioni e la conquista di obiettivi limitati, ma strategicamente importanti, come l’aeroporto di Donetsk.
Gli Stati Uniti, attraverso l’ambasciatore alle Nazioni Unite, Samantha Power, hanno accusato Mosca di minare sistematicamente il processo di pace e di minacciare la stessa stabilità mondiale. Alla fermezza delle posizione statunitensi, l’Unione Europea ha risposto in maniera interlocutoria, soprattutto a causa dei contraccolpi economici delle sanzioni incrociate con Mosca. Il ruolo di mediatore dell’Europa sarebbe però frustrata dalle sempre più dure accuse reciproche tra Kiev e Mosca riguardo le reciproche responsabilità nell’acuirsi della crisi. L’attuale situazione sul campo e la crescente tensione tra i principali attori rendono al momento difficile non solo la percorribilità della via diplomatica per la soluzione del conflitto, ma lo stesso dialogo tra le parti.

Yemen

Mercoledì scorso il Presidente yemenita Abdrabuh Mansour Hadi ha sostituito cinque ministri del governo nel tentativo di riportare al negoziato lo scontro con la comunità degli Houthi.
La trattativa del Presidente Hadi con i ribelli – che, dopo aver occupato numerosi palazzi istituzionali della capitale, hanno condizionato il proprio ritiro all’ingresso nell’esecutivo - sembra però essere naufragata, in quanto i rappresentanti Houthi non hanno accettato di entrare nel governo, continuando a mantenere le proprie posizioni di controllo sulla capitale.
Gli Houthi, minoranza religiosa yemenita che professa lo Zaydismo (una branca dell’Islam sciita) e storicamente si concentra nel nord del Paese, hanno preso il controllo di Sanaa il 21 settembre, innescando una completa paralisi delle istituzioni yemenite e uno sparigliamento delle alleanze che si erano formate alla caduta di Saleh nel 2012. Scatenata inizialmente dalla decisione del governo di tagliare i sussidi ai carburanti, la rivolta houthi si è allargata nel Paese e dalla provincia di Sanaa i miliziani sciiti hanno condotto un’avanzata verso la capitale che ha cancellato il minimo controllo che il Governo riusciva a esercitare nelle regioni centrali e settentrionali dello Yemen.
I ribelli, oltre a capacità di organizzazione e coordinazione che al momento non hanno pari nel Paese, possono contare anche sulla convergenza d’interessi con l’ex Presidente Saleh.
Nell’ottica dell’ex Presidente - deciso a ricandidarsi alle prossime elezioni presidenziali - l’alleanza con gli Houthi è funzionale a combattere la crescente influenza nel Paese della Congregazione Yemenita per la Riforma (gruppo politico di matrice islamista vicino ai Fratelli Musulmani meglio noto come Al-Islah), il principale partito di opposizione durante la Presidenza di Saleh e la principale forza politica nel Paese nel dopo-Saleh.
Al consolidamento del potere sul nord e sulle zone costiere centrali da parte delle milizie Houthi non segue però una capacità di proiezione sul sud del Paese, in balia tanto dalla violenza qaedista di AQAP (al-Qaeda in the Arabian Peninsula) quanto dalle spinte separatiste delle tribù locali.

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