Geopolitical Weekly n.160

Geopolitical Weekly n.160

Di Enrico Mariutti e Alberto Parisi
30.10.2014

Sommario: Egitto, Nigeria, Tunisia e Ucraina

Egitto

Venerdì 24 ottobre, nel nord del Sinai sono morti oltre 30 soldati egiziani in due distinti attacchi terroristici rivendicati dal gruppo jihadista Ansar Bait al-Maqdis. La fascia del Sinai al confine con Israele e Gaza non è nuova a episodi di terrorismo e presenta un problema endemico di insorgenza, in cui la matrice islamica si fonde con quella etnica e con quella politica. Il governo del Cairo appena appresa la notizia ha decretato lo stato d’emergenza in tutta l’area – attribuendo ulteriori poteri speciali all’Esercito in tutto il Paese – e ha accusato Hamas della responsabilità, annunciando l’istituzione di una fascia di sicurezza nel nord del Sinai di oltre 10 Km, che separi il territorio egiziano da Gaza e chiuda definitivamente la questione. I lavori di demolizione e riqualifica dell’area sono iniziati immediatamente. Le modalità degli attentati – attacchi multipli con lanciagranate ed esplosivi – hanno denotato capacità logistiche e militari inconsuete per il teatro del Sinai e fornito un’ulteriore dimostrazione di come, attraverso l’appoggio delle tribù e dei villaggi berberi, i ribelli riescano facilmente a sfuggire al controllo delle autorità egiziane. Dalla caduta del regime di Mubarak le forze di sicurezza egiziane hanno perso il controllo della regione del Sinai, che si è di fatto trasformata in una zona franca in cui prosperano i traffici illegali (armi, droga, esseri umani). Inoltre, l’assenza di adeguati apparati di sicurezza ha trasformato la penisola in un crocevia per il terrorismo jihadista e l’insorgenza locale, un’area in cui scambiare informazioni e ottenere supporto logistico.

Nigeria

Il 30 ottobre il presidente Goodluck Jonathan ha ufficializzato la propria ri-candidatura alle elezioni presidenziali del prossimo febbraio, rompendo così la consuetudine che vorrebbe l’alternanza al vertice dello Stato tra cristiani delle etnie meridionali del Paese e musulmani delle etnie settentrionali. Jonathan, di fede cattolica e appartenente al gruppo etnico Ijaw, ha occupato la massima carica statale dal 2010 dopo la morte dell’allora presidente Umaru Yar’Adua, del quale era vice, per poi ottenere nuovamente il mandato vincendo le elezioni del 2011. Il principale avversario di Jonathan sarà Muhammadu Buhari, musulmano di etnia Hausa-Fulani ed ex reggente della giunta militare che ha governato la Nigeria tra il 1983 e il 1985, sostenuto dalla coalizione Congresso di Tutti i Progressisti. Per essere eletto nel 2011, Jonathan, oltre all’appoggio del Partito Democratico Popolare di cui è esponente, ha stretto alleanze con alcuni governatori musulmani di orientamento moderato degli Stati del nord, e per essere rieletto avrebbe bisogno di rinnovarle e consolidarle. Qualora Jonathan riuscisse nel suo intento, potrebbe aprirsi una nuova stagione nella vita politica nigeriana, caratterizzata da un nuovo asse d’interessi tra cristiani e musulmani moderati. Tuttavia, una simile strategia potrebbe urtare gli ambienti musulmani più conservatori e le ambizioni di quelle personalità Hausa-Fulani e islamiche intenzionate a scalare le gerarchie del potere. Inoltre, un nuovo mandato da parte di forze cristiane ed espressione degli interessi delle etnie meridionali potrebbe inasprire l’insorgenza da parte della setta salafita Boko Haram, il cui intento è la trasformazione della Nigeria in un emirato tramite l’applicazione su scala nazionale della versione più intransigente e letterale della Sharia. Dunque, in caso di vittoria di Jonathan sarebbe lecito aspettarsi una significativa escalation delle violenze e degli attacchi bokoharamisti, anche su scala nazionale e non solo nelle remote regioni del nord-est.

Tunisia

Il 26 ottobre si sono tenute in Tunisia le elezioni legislative, tappa intermedia della transizione democratica tra l’approvazione della Costituzione e le Presidenziali del prossimo 23 novembre. La vittoria è andata al partito laico Nidaa Tounes, che ha ottenuto il 39,17% dei voti aggiudicandosi 85 dei 217 seggi disponibili, superando la formazione islamista Ennahda, che ottenuto il 31,79% dei suffragi con 69 seggi. Non avendo raggiunto la maggioranza dei seggi, per governare, Nidaa Tounes dovrà trovare un accordo con altri partiti: le ipotesi più accreditate prevedrebbero un governo di larghe intese con Ennahda o un esecutivo che comprenda ministri degli altri partiti laici entrati in Parlamento. La consultazione ha visto un’affluenza pari al 61,8% degli aventi diritto, con un significativo aumento rispetto al 51,97% delle elezioni del 2011 e si è svolta senza violenze, nonostante i timori della vigilia per eventuali azioni terroristiche da parte dei gruppi jihadisti. A beneficiare del voto è stato quindi il blocco laico d’opposizione aggregatosi intorno all’ex premier dei primi mesi di transizione, Beji Caid el-Sebsi, mentre Ennahda sembra aver pagato il prezzo della mancata realizzazione delle riforme politiche ed economiche che le avevano permesso di vincere la prima tornata elettorale libera della Tunisia post-rivoluzionaria nel 2011. Nonostante la Tunisia sia l’unico dei Paesi passati attraverso la stagione delle Primavere Arabe nel quale le istituzioni socio-politiche hanno resistito all’instabilità e alla frammentazione, desta forte preoccupazione la sempre maggiore radicalizzazione di parte del mondo giovanile e la presenza di oltre 3.000 tunisini in Siria e Iraq tra le file dello Stato Islamico, con i pericoli che comporterebbe un loro ritorno in patria.

Ucraina

Il 26 ottobre scorso si sono tenute le elezioni in Ucraina per rinnovare la Verkhovna Rada (Parlamento Ucraino). Tuttavia, a causa della secessione della Crimea e della ribellione nelle regioni orientali, circa il 20% degli aventi diritto non ha potuto prendere parte alle consultazioni. Per questa ragione, trenta seggi del Parlamento rimarranno vacanti.I risultati hanno consegnato una netta vittoria al blocco filo-occidentale con circa il 70% dei consensi, fotografando però una situazione interna allo schieramento di Euromaidan differente da quella immaginata dalle previsioni e dagli exit poll internazionali: il blocco di Poroshenko, uscito vincitore dalle elezioni presidenziali di maggio con il 55% delle preferenze, raccoglie appena il 21,7% dei consensi e si attesta dietro al Fronte Popolare del premier Arseniy Yatseniuk, al 22,2%.Completano lo schieramento filo-occidentale Samopomich (Auto Aiuto) con il 10,5 %, il Partito Radicale di Oleh Lyashko al 7,6% e Patria di Yulia Tymoshenko di poco sopra alla soglia del 5%.Per quanto riguarda le formazioni filo-russe, il Blocco Opposizione, che raccoglie l’eredità del Partito delle Regioni di Viktor Yanukovich, si attesta a un sorprendente 9,6%, vincendo addirittura a Kharkhiv, una delle più grandi città dell’Ucraina orientale. Si tratta di un dato notevole se si considera il fatto che i principali bastioni filo-russi dell’Ucraina non hanno partecipato al voto per le ragioni di cui sopra.Nonostante le componenti di estrema destra di Euromaidan, del Partito Svoboda e di Pravy Sektor, siano rimaste fuori dal Parlamento, il voto ucraino è stato caratterizzato da una retorica fortemente nazionalista e russofobica, influenzata dalla guerra in Donbass e dal clima teso seguito alla secessione crimeana. Inoltre, le stesse formazioni euroatlantiste hanno adottato toni marcatamente nazionalisti, candidando molti militari reduci dal fronte, inclusi ex –miliziani di estrema destra in servizio con i famigerati battaglioni della Guardia Nazionale.Il quadro che emerge dalle elezioni è quello di un Paese estremamente frammentato e regionalizzato: l’affluenza, del 52%, rimarca come i risultati siano espressione di una risicata maggioranza della popolazione, peraltro concentrata nell’ovest del Paese, che ha fatto registrate picchi del 70% di affluenza a fronte del 30/40% nelle regioni di Donetsk, Lugansk e Odessa.In ogni caso, l’affermazione di forze anti-russe e con aree di contiguità con l’universo ultra-nazionalista e conservatore potrebbe sbilanciare la futura coalizione di governo verso posizioni meno concilianti nei confronti del separatismo orientale, con il rischio di una ripresa delle operazioni militari su larga scala.

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