Geopolitical Weekly n.156

Geopolitical Weekly n.156

Di Alberto Parisi
02.10.2014

Sommario: Afghanistan, Gaza, Hong Kong, Libia

Afghanistan

Il 30 settembre il nuovo governo afghano ha acconsentito a firmare gli accordi di sicurezza con Stati Uniti e NATO necessari a definire la permanenza delle truppe internazionali nel Paese a partire dal 2015, rispettivamente il Bilateral Security Agreement (BSA) e il NATO SOFA. La firma degli accordi, giunta il giorno successivo all’insediamento del nuovo esecutivo, è stata accolta con grande favore sia da Washington sia da Bruxelles, per i quali la continua procrastinazione, in questi mesi, della definizione dei due accordi ha comportato un considerevole ritardo nella pianificazione del programma di ridispiegamento delle proprie Forze. Secondo quanto definito, dovrebbero essere circa 13.000 i militari stranieri che resteranno in Afghanistan nei prossimi mesi. Gli Stati Uniti manterranno una Forza di circa 9.800 uomini che dovrebbe essere progressivamente ridimensionata nel corso dei tre anni successivi: nel 2016 il numero degli effettivi dovrebbe essere dimezzato e ridispiegato esclusivamente tra la base di Bagram e Kabul, per arrivare ad un contingente di circa un centinaio di uomini all’interno dell’Ambasciata americana nella capitale. Saranno invece all’incirca 3.000 gli uomini messi a disposizione dai Paesi NATO, tra cui anche l’Italia, che hanno deciso di aderire a Resolute Support, la nuova missione di addestramento e advisoring in supporto alle Forze di sicurezza afghane.
La decisione di procedere alla ratifica di BSA e NATO SOFA sembra essere un importante segnale da parte del nuovo governo sia della volontà di ricucire i rapporti con i Paesi Occidentali, in primis con gli Stati Uniti, sia della consapevolezza della degenerazione delle condizioni di sicurezza che il Paese si trova a dover affrontare. Nelle ultime settimane, infatti, attentati condotti contro obiettivi istituzionali e militari afghani hanno provocato decine di vittime, mentre una vasta offensiva ha inoltre permesso ai talebani di prendere il controllo della provincia di Ghazni, zona strategica nel sud-est del Paese.

Gaza

Il 25 settembre Fatah e Hamas hanno annunciato di aver raggiunto un accordo per la formazione di un nuovo governo di unità nazionale che porrà la Striscia di Gaza sotto la loro amministrazione congiunta. Anche se i dettagli sarebbero ancora in via di definizione, pare che l’accordo preveda il ritorno delle Forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), ponendo fine al controllo esclusivo di Hamas che durava dal 2007. Le forze dell’ANP si dovrebbero dispiegarsi principalmente lungo i confini e presso i valichi di frontiera della Striscia. Inoltre, l’accordo acconsentirà al ritorno nel territorio in questione degli esponenti di Fatah, che l’avevano abbandonato dopo gli scontri fratricidi del 2007.
L’intesa è stata raggiunta ad un mese di distanza dalla fine delle ostilità tra Hamas e Israele e a due settimane dalla conferenza dei donatori per la ricostruzione, prevista per il prossimo 12 ottobre al Cairo. Al momento, la gestione dei fondi della ricostruzione sembrerebbe essere la principale preoccupazione delle due fazioni palestinesi, entrambe decise a controllare il flusso degli aiuti e la conseguente erogazione dei servizi alla popolazione civile. A tale opera sociale è interessata soprattutto Hamas, che spera così di recuperare quel sostegno popolare che tende tradizionalmente ad erodersi nei periodi di pace. Di contro, per Fatah, oltre alle esigenze economiche, il ritorno a Gaza avrebbe anche un forte significato politico ed un’ipotetica funzione di deterrenza nei confronti delle fazioni più estremiste di Hamas. Per tutte queste ragioni, la futura coabitazione tra Fatah ed Hamas potrebbe essere complessa e conflittuale.
Un ulteriore rischio legato al ritorno delle forze dell’ANP potrebbe riguardare la sempre maggiore attività, sia politica che militare, svolta delle formazioni jihadiste attive nella Striscia. Infatti, queste ultime, in rapporti ambigui con Hamas e attive nel corso del conflitto contro Israele, potrebbero non essere tollerate da Fatah.

Hong Kong

Dal 24 settembre Hong Kong è teatro di proteste da parte di studenti e attivisti democratici, rappresentati dalle piattaforme Scholarism e Occupy Central with Love and Peace, scesi in piazza per rivendicare il diritto dei cittadini hongkonghesi ad eleggere in autonomia i rappresentanti del proprio governo. La protesta, infatti, giunge a poche settimane dalla decisione di Pechino di istituire una commissione ad hoc preposta ad approvare preventivamente i candidati eleggibili durante le prossime elezioni, che si terranno a suffragio universale nel 2017 per il rinnovo dei vertici dell’esecutivo nella regione automa. Sebbene le Forze dell’ordine siano intervenute per cercare di contenere le proteste, gli scontri tra polizia e manifestanti non sono degenerati in episodi di violenza e i toni della protesta, per quanto risoluti, continuano ad essere al momento sostanzialmente pacati. A fronte della richiesta giunta dalla piazza delle dimissioni dell’attuale Capo dell’Esecutivo, CY Leung, inoltre, il governatore di Hong Kong ha accettato di aprire un tavolo negoziale con i manifestanti per discutere il completamento e l’implementazione di una riforma elettorale.
Benché, al momento, sembrerebbe essersi aperta l’opportunità per un dialogo diretto tra le parti, l’effettivo successo di questa strategia sarà però necessariamente vincolato all’accondiscendenza da parte del governo cinese. Per Pechino, infatti, la gestione della crisi di Hong Kong rappresenta un fattore di grande delicatezza. Da un lato, infatti, la visibilità internazionale degli eventi dei giorni scorsi rende difficile per il governo cinese scegliere di adottare un approccio duro nei confronti delle proteste senza suscitare il biasimo della Comunità Internazionale. Dall’altro, le manifestazioni di Hong Kong potrebbero ispirare movimenti emulativi anche in altre regioni della Cina che, contrari alle politiche di Pechino, potrebbero decidere di scendere in piazza per rivendicare per rivendicare non tanto una maggiore autonomia quanto una vera e propria indipendenza.

Libia

Il 29 settembre rappresentanti dei due parlamenti di Tripoli e Tobruk si sono incontrati per la prima volta nella città di Ghadames, dando il via a colloqui che hanno come obiettivo la soluzione del conflitto istituzionale che da oltre 2 mesi attanaglia il Paese. L’incontro, avvenuto grazie alle mediazione dell’Onu, non ha visto la partecipazione di rappresentanti del potente ed eterogeneo panorama delle milizie.
Nonostante l’avvio del dialogo sia stato accolto in maniera positiva dalla Comunità Internazionale, la realtà sul terreno riporta una situazione altamente complessa, la cui pacificazione appare legata all’inclusione nelle trattative anche di attori e poteri extra-parlamentari. Infatti, oltre ai due Parlamenti, dominato da forze islamiste quello di Tripoli e da forze “laiche” quello di Tobruk, il territorio libico è controllato da organizzazioni fortemente regionalizzate, come milizie, gruppi salafiti in contatto con al-Qaeda (Ansar al-Sharia a Bengasi) e autorità politiche autoproclamatesi tali (il governo di Barqa in Cirenaica). Il controllo di queste regioni è caratterizzato da alleanze eterogenee e variabili, legate alla spartizione degli introiti derivanti dai traffici illegali. Ad oggi, entrambe le Assemblee detengono quote di potere molto limitate rispetto al mosaico di formazioni para-militari e jihadiste.
Nonostante il tentativo di riconciliazione tra i due Parlamenti, la scena politica libica è tutt’ora caratterizzata da una crescente conflittualità tra forze laiche e forze islamiste, anche in assenza di un vero e proprio fronte unitario ed omogeneo nei due schieramenti. Tale conflittualità ha assunto una dimensione molto violenta a causa di operazione “Dignità”, l’offensiva militare contro milizie islamiste capeggiata dal Generale Haftar, già membro dell’establishment militare del regime di Gheddafi fino al 1987 e poi dissidente, tornato in Libia nel 2011 durante la rivolta contro il Colonnello.
La presenza jihadista, l’anarchia tribale e il notevole potere detenuto dalle milizie rendono il Paese altamente instabile, e questa situazione rende complesso anche il sostegno della Comunità Internazionale a causa della mancanza di interlocutori locali affidabili.

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