Geopolitical Weekly n.155

Geopolitical Weekly n.155

Di Enrico Mariutti
25.09.2014

Sommario: Afghanistan, Algeria, Yemen, Siria

Afghanistan

Il 21 settembre a Kabul i due candidati alla presidenza, Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah, hanno raggiunto l’accordo per la formazione di un governo di coalizione. Secondo l’intesa raggiunta, Ghani è stato nominato Presidente e spetterà ad Abdullah nominare il Chief Executive – figura  reintrodotta ad hoc, assimilabile a quella di un Primo Ministro, ma con poteri ancora da definire. Sebbene l’accordo, accolto con moderato ottimismo sia in patria che all’estero, sembrerebbe risolvere lo stallo politico che paralizzava le istituzioni afghane dallo scorso giugno, in realtà questa soluzione potrebbe presentare ancora una serie di incognite.

La necessità di porre termine all’impasse istituzionale per far fronte alle difficili condizioni economiche in cui versano le casse dello Stato, infatti, potrebbe aver spinto i due ex contendenti ad affrettare la firma dell’accordo per trovare il plauso, e nonché l’indispensabile aiuto, internazionale.

L’agenda politica del Paese sarà ricca di appuntamenti spinosi nei primi mesi di governo e la capacità di interazione e collaborazione tra le due anime del governo di coalizione, espressione di realtà etniche e istanze politiche differenti, sarà fondamentale. Un primo banco di prova per la tenuta del nuovo esecutivo potrebbe essere la firma degli accordi di sicurezza per la definizione della presenza internazionale in Afghanistan a partire dal 2015.

Dopo che il Parlamento avrà definito e ratificato i poteri del Chief Executive, infatti, si aprirà il tavolo negoziale con gli USA e la NATO per la definizione, rispettivamente, del Bilateral Security Agreement e del NATO SOFA, la cui continua procrastinazione non solo ha rappresentato il principale motivo di rottura tra l’ormai ex Amministrazione Karzai e i partner occidentali ma, soprattutto, ha messo in serio dubbio l’avvio della futura missione internazionale nel Paese.

Yemen

A partire dalla seconda settimana di settembre, lo Yemen ha visto inasprirsi il confronto tra la minoranza Houthi e l’Esercito di Sanaa.

Gli Houthi sono una realtà tribale radicata nelle regioni settentrionali del Paese (Saada e Jawf). A fasi alterne e intensità variabili queste sono in conflitto con il governo centrale da circa 10 anni. Forti del fattore omogeneizzante di matrice religiosa, si contraddistinguono per l’adesione allo zaydismo, una variante dello sciismo professata da circa il 30% dei musulmani yemeniti, gli Houthi sono emersi come una influente realtà regionale nel panorama politico yemenita dalla caduta del Presidente Saleh nel 2011.

Le recenti tensioni tra governo ed insorti, scaturite apparentemente dalla soppressione di alcuni privilegi fiscali, sono degenerate quando, tra il 9 e il 10 settembre, le forze di sicurezza yemenite hanno aperto il fuoco sui manifestanti.

In risposta alla repressione da parte delle Forze di sicurezza, le milizie Houthi sono arrivate ad assediare e occupare i principali palazzi del potere di Sanaa, sbaragliando nel nord del Paese la resistenza delle milizie filogovernative sunnite, in larga parte legate alle scuole coraniche. Al culmine di una settimana di sangue, con decine di morti e centinaia di feriti, e con l’aiuto dell’inviato speciale dell’ONU Jamal Benomar, il 22 settembre le parti sembravano aver trovato infine un accordo di pace.

Tuttavia, come spesso accaduto negli ultimi 3 anni, l’accordo è stato rapidamente sconfessato e le milizie Houthi hanno ripreso le ostilità, giungendo a controllare rapidamente la capitale e mettendo in fuga i gruppi armati della tribù Ahmar, la stessa dell’ex Presidente Saleh, e le Forze di sicurezza yemenite.

Algeria

Domenica 21 settembre un turista francese di 55 anni è stato rapito in Cabilia, una regione montuosa nel nord dell’Algeria. Il rapimento è stato rivendicato del gruppo jihadista Jund al-Khilafah (JaK, “Soldati del Califfo”). I rapitori non hanno chiesto un riscatto, bensì l’immediata cessazione dei raid francesi in Iraq, minacciando l’esecuzione dell’ostaggio in caso contrario.

Alla risposta ferma del governo francese è seguita la decapitazione dell’ostaggio. Il video del brutale assassinio è stato diffuso sui media occidentali mercoledì 24, dopo che la veridicità del contenuto è stata confermata.

L’attacco, il primo di questo gruppo, è significativo in quanto presenta numerose analogie con la retorica di ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e Sham).

Infatti, lo JaK è una neonata formazione combattente nata dalla fuoriuscita da AQMI (al-Qaeda nel Maghreb Islamico) del gruppo di Gouri Abdelmalek, ex comandante qaedista nelle regioni orientali algerine. JaK, nel suo primo documento ufficiale, ha unilateralmente dichiarato la propria fedeltà a ISIS, accusando la leadership di AQMI di aver “tradito” i suoi obblighi religiosi e la sua missione politica globale.

La fuoriuscita di JaK da AQIM e il crescente fascino esercitato dalla retorica di ISIS sui gruppi militanti in Nord Africa, non solo rimarca un trend internazionale, che vede l’ISIS assumere una visibilità e una capacità di attrazione sempre maggiori rispetto ad una al-Qaeda al momento in difficoltà ma pone ancora una volta in evidenza la disomogeneità del panorama jihadista in questa regione. Come accaduto in passato, la conflittualità dei rapporti tra le leadership centrale e gli influenti gruppi operativi diffusi in tutto il territorio algerino e nel Sahel, ha spesso spinto i più influenti comandanti locali a smarcarsi dall’autorità centrale dell’emiro Droukdel per massimizzare i pronti interessi politici ed economici. Infatti, i grandi interessi orbitanti attorno ai traffici illeciti e la commistione tra gruppi qaedisti e reti criminali ha aumentato i profitti e il potere dei comandanti locali, incentivandone la volontà di indipendenza da una leadership “ideologica”, come quella di AQMI, costretta a nascondersi nelle impervie montagne della Cabilia e sempre più distante dai gruppi operativi.

Siria

Nella notte tra il 22 e il 23 settembre sono iniziati in Siria i raid della coalizione internazionale guidata dagli USA contro le posizioni di ISIS e Jabhat al-Nusra (Khorasan). Alle operazioni hanno partecipato anche Giordania, Arabia Saudita, Bahrein, Qatar ed Emirati Arabi Uniti.

I bombardamenti, effettuati con missili cruise, droni, F-15, F-16, F-18, F-22 e B-1, si sono concentrati al confine con l’Iraq – principalmente nei pressi dei centri di Hasakah e Abu Kemal – e nei sobborghi di Raqqa e Aleppo.

I raid aerei dovrebbero essere solo l’inizio di una lunga campagna, come affermato dai vertici militari USA, mirata a eliminare tanto la nuova minaccia del Califfato Islamico, e quindi a colpire ISIS e i suoi alleati, quanto la persistente minaccia qaedista, legata a Jabhat al-Nusra e al suo network, di cui sembra far parte anche il gruppo Khorasan.

Nella fase attuale, gli attacchi sono stati condotti contro centri di addestramento, depositi di armi, basi logistiche ed edifici di controllo e comando. Dalla notte di mercoledì, si sono allargati alle strutture per la raffinazione e lo stoccaggio del petrolio, risorsa alla base dell’economia dell’ISIS.

Lo sviluppo delle operazioni potrebbe presentare due criticità per gli Stati Uniti, di cui però i vertici militari e politici sembrano consapevoli. Da una parte, l’Amministrazione Obama non vuole che il mondo arabo legga queste operazioni come una guerra all’Islam, e gli alleati del Golfo potrebbero garantire che questa percezione non prevalga. Dall’altra, la mancanza di unità terrestri affidabili e operativamente idonee ad ingaggiare le milizie jihadiste sul terreno per metterle definitivamente in rotta, potrebbe favorire l’adozione di contromisure da parte di IS e degli altri gruppi terroristi  per limitare la vulnerabilità agli attacchi dal cielo disperdendo le proprie forze da combattimento e nascondendo per quanto possibile le proprie infrastrutture di comando e controllo e di supporto logistico.

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