Geopolitical Weekly n.147

Geopolitical Weekly n.147

Di Andrea Ferrante e Anna Miykova
29.05.2014

Sommario: Egitto, Gibuti, Tunisia, Ucraina

Egitto

Nella giornata di mercoledì 28 maggio si sono con concluse le elezioni presidenziali. La tornata elettorale, ideale punto di arrivo del processo di transizione istituzionale avviato in seguito alla destituzione da parte delle Forze Armate del Presidente Mohamed Morsi, ha sancito la schiacciante vittoria dell’ex-Ministro della Difesa Abdel-Fattah al-Sisi, artefice del colpo di Stato che ha deposto il leader della Fratellanza Musulmana. Nonostante permanga ad oggi un velo d’incertezza sulle cifre definitive del voto, fonti governative affermano che al-Sisi ha ottenuto il 93,3% dei consensi, contro il 3% del suo sfidante Hamdeen Sabahi, con un’affluenza alle urne pari al 46%.

La forza di al-Sisi, la cui popolarità è cresciuta a dismisura da quando, nell’agosto 2012, ha rilevato il ruolo del Generale Mohammed Hussein Tantawi come Ministro della Difesa e Capo delle Forze Armate, va individuata nella sua capacità di porsi come garante di una nuova fase di stabilità e consolidamento del potere istituzionale, in un periodo di crescente polarizzazione del sistema politico egiziano, prodotto dell’estremizzazione del conflitto tra autorità statali e frange islamiste.

Al nuovo Presidente spetta ora l’onere di farsi carico di due sfide di fondamentale importanza: il rafforzamento della sicurezza nazionale e il rilancio dell’economia egiziana. Le promesse esibite da al-Sisi nel corso della campagna elettorale riguardo i programmi di sviluppo socio-economico e di contrasto al terrorismo, ora dovranno confrontarsi con le reali necessità del paese e con i rischi di aggravamento delle tensioni interne al cuore della nazione.

Gibuti

Domenica 25 maggio, un doppio attentato suicida ha colpito Gibuti, capitale dell’omonimo Stato situato nel Corno d’Africa, causando la morte di 3 persone e il ferimento di altre 15. Nello specifico, a colpire il ristorante La Chaumere, notoriamente frequentato da occidentali, in larga misura militari francesi della locale base di Camp Lemonnier, è stato il gruppo terrorista somalo al-Shabaab. Nel rivendicare l’attentato, Ali Dheere, il portavoce dell’organizzazione jihadista, ha dichiarato che questo rappresenta un atto di rappresaglia contro la NATO e i Paesi occidentali a causa della loro reiterata lotta contro l’Islam nel mondo. In particolare, al-Shabaab si è scagliato contro la Francia, rea a suo dire di massacrare le popolazioni musulmane in Repubblica Centrafricana.

Si tratta del primo attacco di al-Shaabab sul territorio di Gibuti, a testimonianza della crescente internazionalizzazione operativa e ideologica del gruppo, diretta conseguenza del rafforzamento dei suoi legami con al-Qaeda. Tale tendenza è emersa da alcuni mesi, nello specifico con gli attacchi dello scorso anno contro il Westgate Mall della capitale keniota Nairobi. Infatti, fino a pochi mesi fa le principali azioni di al-Shaabab sono state finalizzate a colpire il governo di Mogadiscio e i membri della missione AMISOM (African Mission in Somali).

In questo senso, Gibuti potrebbe rappresentare un obbiettivo sensibile per il movimento jihadista somalo, visto che il Paese ospita diversi contingenti militari occidentali, tra cui quello statunitense, francese e italiano. Nel prossimo futuro, dunque, esiste il rischio che anche l’ex-colonia francese conosca un’escalation degli attacchi terroristici di al-Shabaab, il quale potrebbe radicalizzare ampie fasce della popolazione locale (60% di etnia somala), sfruttando il malcontento sociale dovuto al sottosviluppo e alle precarie condizioni di vita.

Tunisia

Nella notte tra martedì 27 e mercoledì 28 maggio, un commando di circa dieci uomini ha attaccato l’abitazione del Ministro degli Interni Lotfi Ben Jeddou, nella cittadina occidentale di Kasserine, capoluogo dell’omonimo governatorato. Gli uomini armati, giunti a bordo di un furgone, hanno aperto il fuoco contro gli agenti di sicurezza preposti al controllo della casa, uccidendone quattro e ferendone tre, senza riuscire però a introdursi nell’edificio dove si trovavano i familiari del Ministro. Ben Jeddou, ex Procuratore Generale di Kasserine, noto per il suo impegno nella lotta alla diffusione dell’estremismo salafita in Tunisia, non si trovava nell’abitazione nel momento dell’attacco.

Anche in assenza di una rivendicazione dell’attacco, le autorità tunisine hanno puntato il dito contro i gruppi estremisti islamici che operano nell’area di Kasserine, al confine tra Algeria e Tunisia. L’attacco di Kasserine rivela come, a fronte di un crescente sforzo da parte delle autorità per cercare di contenere la minaccia jihadista, la natura fluida dei legami che collegano la galassia salafita tunisina alle organizzazioni terroristiche maghrebine renda difficile prevedere e contrastare gli attacchi delle singole cellule attive nel Paese. I tentativi di combattere e isolare questi gruppi, tra i quali spicca Ansar al-Sharia, non sono riusciti a impedire alle formazioni salafite di riorganizzarsi e continuare a effettuare la propria attività di proselitismo e di attacco alle istituzioni statali.

Ucraina

Il 25 maggio si sono svolte le elezioni presidenziali, le prime dopo le proteste di Euromaidan e la destituzione del Presidente Yanucovich dello scorso febbraio. La larga vittoria di Petro Poroshenko (55%), oligarca con interessi nel settore dell’industria alimentare e dei media nonché noto filo-europeista, rappresenta un evidente segno di continuità da parte del popolo ucraino occidentale nel voler proseguire il processo di avvicinamento e integrazione all’Unione Europea e alla NATO. Inoltre, il modesto risultato ottenuto da Yulia Timoshenko, esponente di lungo corso dell’establishment di potere e paladina della Rivoluzione Arancione del 2004, e il bassissimo consenso fatto registrare dalle formazioni e dai candidati ultraconservatori (cumulativamente meno del 5%) permettono di comprendere la voglia di rinnovamento dell’elettorato ucraino e la sua scarsa fiducia in quelle forze estremiste che avevano a lungo guidato la guerriglia a Piazza Indipendenza a Kiev nei giorni convulsi delle proteste anti-governative. Tuttavia, trattandosi di un voto presidenziale, avvenuto in un contesto di grande incertezza e smarrimento per via degli avvenimenti di Crimea e dell’insorgenza filo-russa nella regione orientale del Donbass, ad avere una grande influenza è stato il carisma e il percorso politico personale  di ciascun candidato più che il partito di appartenenza. In questo senso, Poroshenko aveva un grande vantaggio sui concorrenti per via della propria ricchezza e fama personale e soprattutto per il suo essere un politico navigato ma avulso da quegli scandali che avevano minato la credibilità della classe dirigente nazionale.

La principale sfida per Poroshenko, che godrà del sostegno politico di Vitalij Klitchko, leader del partito UDAR e neoeletto sindaco di Kiev, sarà quella di frenare le spinte autonomiste e separatiste nell’est del Paese, dove le autoproclamate autorità della Repubblica Popolare di Donetsk e della Repubblica Popolare di Lugansk, hanno manifestato la volontà di secedere dall’Ucraina attraverso un contestato e non riconosciuto referendum popolare. L’escalation degli scontri tra milizie ribelli e Forze Armate ucraine ha raggiunto un incredibile livello di violenza. Appare particolarmente significativo come, contemporaneamente al voto, l’esercito ucraino e i gruppi para-militari dell’Est si scontrassero ferocemente nei pressi dell’aeroporto di Donetsk, causando oltre 50 morti tra separatisti e civili. Dunque, la necessità di un confronto politico e pacifico diventa ogni settimana indispensabile per scongiurare l’ulteriore degenerazione del conflitto interno.

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