Geopolitical Weekly n.146

Geopolitical Weekly n.146

Di Andrea Ferrante e Anna Miykova
22.05.2014

Sommario: India, Libia, Pakistan, Yemen

India

Le elezioni per il rinnovo della Camera Bassa indiana (Lok Sabha), che si sono concluse lo scorso 12 maggio, hanno decretato la vittoria della Coalizione Democratica Nazionale (NDC) guidata dal Bharatya Janata Party (BJP). Il successo del BJP, capeggiato dal leader nazionalista Narenda Modi, ha segnato un risultato storico per la politica interna indiana. Infatti, per la prima volta in trent’anni, il partito di Modi, nominato Primo Ministro il 21 maggio, è riuscito a ottenere da solo la maggioranza assoluta dei voti, aggiudicandosi ben 283 seggi dei 543 totali. La competizione elettorale ha segnato la sconfitta del Partito del Congresso e ha portato a galla la forte disaffezione nei confronti della precedente classe dirigente che si è dimostrata incapace di tradurre il forte sviluppo economico in benessere diffuso ad ampie fasce della popolazione. Al contrario, gli ottimi risultati economici conseguiti dalla politica di Modi nello Stato del Gujarat, di cui è stato governatore, hanno contribuito al suo successo elettorale. Tuttavia, il conservatorismo religioso e la vicinanza ai movimenti induisti radicali del Primo Ministro destano non poca preoccupazione: ad oggi, infatti, non è ancora chiaro il suo coinvolgimento nei pogrom antimusulmani che si sono verificati, nel 2002 nello Stato da lui governato.  La larga vittoria del BJP, che offre al partito la possibilità di garantire la stabilità del proprio mandato anche senza l’appoggio degli alleati minori, potrebbe determinare un inasprimento delle posizioni del governo. Tale cambiamento potrebbe rappresentare un fattore di criticità anche per la delicata gestione dei rapporti tra l’India e il nostro Paese. Durante la campagna elettorale, infatti, Modi aveva fortemente criticato il Partito del Congresso per l’atteggiamento conciliatorio verso i due Fucilieri di Marina, attualmente detenuti in India. Benché non sia da escludere che la retorica di Modi nei confronti dei due Marò sia stata un mero espediente elettorale, i numeri di cui il BJP dispone in Parlamento potrebbero determinare una gestione unilaterale della crisi diplomatica da parte del nuovo partito di maggioranza.

Libia

Sabato 17 maggio, formazioni paramilitari guidate dall’ex Generale dell’esercito libico Khalifa Haftar hanno dato il via a un’operazione finalizzata a prendere il controllo del Paese e a contrastare l’avanzata delle milizie islamiste in alcune aree della Libia. Haftar, alto ufficiale ai tempi del regime di Gheddafi, si era già reso protagonista di una simile iniziativa quando, lo scorso febbraio, aveva chiamato il popolo libico all’insurrezione contro il Parlamento eletto, accusato di essere politicamente colluso coi ribelli islamisti attivi in Libia.

L’offensiva militare ha colpito la capitale Tripoli, arrivando a minacciare la sede del Congresso Nazionale, e il capoluogo della Cirenaica, Bengasi, attorno al quale si registra una forte concentrazione di milizie islamiste. Il governo del Primo Ministro ad Interim al-Thinni ha denunciato l’azione come un tentativo di colpo di Stato e ha intimato alle brigate Qaaqaa e Sawaiq, fedeli ad Haftar, di abbandonare la capitale.

L’azione di forza giunge al termine di mesi molto convulsi, nei quali il Paese ha attraversato momenti di estrema instabilità. L’intervento di Haftar pare essere orientato, perciò, contro coloro che vengono identificati quali “responsabili” dell’attuale disordine interno: da una parte i gruppi islamisti radicali, dall’altra il governo e il Parlamento di Tripoli, giudicati deboli nell’azione di repressione e politicamente compromessi coi ribelli.

L’operazione “dignità”, com’è stata simbolicamente ribattezzata, sembrerebbe al momento poter contare sull’esigenza di ordine e stabilità interna di una parte del Paese e su un possibile, ma sin qui poco chiaro, sostegno “esterno”, di cui beneficerebbero gli uomini di Haftar. In particolare, nell’offensiva condotta su Bengasi, ha visto l’impiego di elicotteri militari che non apparterrebbero alle Forze Armate libiche, dal momento che l’intera aviazione è stata distrutta durante la missione Nato “Odyssey Dawn”, nel 2011. La circostanza, tuttavia, non ha al momento trovato elementi di riscontro sufficienti per poter indicare con certezza l’origine e la natura del supporto fornito ad Haftar.

Pakistan

Martedì 20 maggio, l’Aviazione pakistana ha condotto un’operazione militare nel Nord-Waziristan, all’interno della regione denominata FATA (Federal Administered Tribal Areas). I raid aerei si sono concentrati su Mir Ali, situata a circa 40 km dal confine afghano, e avrebbero provocato 60 vittime e 30 feriti tra gli insorti, presumibilmente appartenenti alle milizie talebane del TPP (Taliban Movement of Pakistan), organizzazione “ombrello” di ribelli di etnia Pashtun attiva nell’area sin dal 2007 e attualmente guidata dal leader talebano Maulana Fazlullah.

Le trattative intavolate tra una delegazione di ribelli talebani e i rappresentanti del Primo Ministro Nawaz Sharif vanno avanti da mesi senza esito, oscillando tra apparenti segnali di avvicinamento e marcate prese di distanza.

La differenza di vedute tra la politica oltranzista dei militari, propensi a continuare l’offensiva contro i ribelli nel Nord del Paese, e l’ala dialogante, rappresentata dal governo Sharif, segnala una divisione interna al potere centrale e rende complessa la definizione di una strategia univoca da parte delle istituzioni, in uno scenario come quella pakistano, nel quale le Forze Armate hanno storicamente detenuto una posizione di rilievo.

In questo senso, le recente presa di posizione di Fazlullah, il quale ha fatto sapere che la lotta portata avanti contro il governo di Islamabad andrà avanti sino a quando la Legge Islamica non sarà introdotta in Pakistan, sembra poter produrre l’effetto di acuire le divisioni interne tra le Forze Armate e il Governo Nazionale e di radicalizzare lo scontro in atto.

I contraddittori segnali che provengono dallo scenario pakistano lasciano supporre, quindi, che il conflitto in atto possa continuare a svolgersi sul “doppio binario” della diplomazia e del confronto militare, lasciando al momento irrisolta la fondamentale questione di sicurezza che allarma lo Stato pakistano.

Yemen

Nelle ultime settimane, il sud dello Yemen è stato teatro di frequenti attentati da parte dei miliziani di Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), i quali hanno colpito numerosi funzionari governativi, membri delle forze di sicurezza nazionali e civili sia yemeniti che stranieri. Lo scorso 16 maggio, nel corso di un attacco agli avamposti militari di Azzan e Gol al-Rayda nella provincia meridionale di Shabwa, sono morti oltre 30 militanti qaedisti e circa 8 soldati dell’Esercito yemenita. La rappresaglia armata dei jihadisti rappresenta la risposta alla decisione del governo di Adb Rabbuh Mansur Hadi di lanciare, a partire dalla fine di aprile, una violenta offensiva contro le roccaforti di AQAP nelle province meridionali dello Yemen, dove i qaedisti sono profondamente radicati. Un ulteriore fattore di destabilizzazione del sud del Paese è dato dalla presenza del movimento separatista Hirak, a sua volta accusato di aver compiuto attentati contro le forze di sicurezza nazionali. Lo strumento militare, dunque, è servito sia per colpire l’organizzazione jihadista sia le violente istanze secessioniste, nonché per mandare un segnale sulla ripresa delle deboli istituzioni statali. Le operazioni finora condotte hanno ottenuto importanti risultati riuscendo a indebolire il movimento qaedista e, in taluni casi, a eliminare i vertici locali di AQAP. Ciononostante, la struttura dell’organizzazione appare ancora molto attiva e  a tal proposito, un video reso pubblico di recente, mostra una riunione di una folta schiera di leader tribali yemeniti presieduta dal leader di AQAP Nasir al-Wuhayshi. In questa prospettiva, appare evidente come il rafforzamento delle istituzioni e del potere centrale potrebbe giovare al dialogo nazionale e permetterebbe, di conseguenza, di contrastare la contiguità tra jihadismo e realtà tribali.

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