Asia e Pacifico

La crisi coreana ed il rischio di escalation

Di Luca La Bella
16.04.2013

La penisola coreana vive in queste ore sul filo del rasoio, ad un passo da una potenziale e catastrofica ripresa delle ostilità. Sebbene i sudcoreani possano essere ormai abituati al periodico riacutizzarsi della crisi, anche per Seoul il rischio appare oggi più concreto che in qualsiasi altro momento negli ultimi 60 anni.

Nelle ultime settimane il Nord ha eseguito il test di un missile inter-continentale, un test nucleare, ha smantellato linee di collegamento con il Sud, revocato l’armistizio del ’53 e formalmente decretato lo stato di guerra con Seoul, eseguito attacchi cyber e perfino chiuso – contro i suoi stessi interessi – il complesso industriale congiunto di Kaesong. Pyongyang ha inoltre minacciato l’attacco nucleare preventivo contro gli USA, schierato e rifornito missili balistici a raggio intermedio, esortato la comunità diplomatica nel Nord a lasciare il Paese e invitato gli stranieri residenti in Sud Corea all’evacuazione. Le incognite sul nuovo leader ed i passati attacchi a sorpresa contro il Sud, unitamente alla presenza di assetti militari in abbondanza, aggravano ulteriormente la situazione. Infatti, dopo gli attacchi gratuiti del marzo e novembre 2010, il siluramento della corvetta sudcoreana Cheonan e il bombardamento dell’isola di Yeonpyeong , un incidente, come ad esempio un test missilistico fuori traiettoria o un incidente in mare, potrebbe dare il via ad un circolo vizioso di azione e reazione difficilmente controllabile, come ha ribadito recentemente il Segretario Generale ONU, il sudcoreano Ban Ki-moon. Nel contesto della difficile interpretazione e previsione degli sviluppi che riguardano la crisi nordcoreana, attenersi ai proclami della propaganda di Pyongyang può essere controproducente, visto il continuo pendolo fra l’impulso di distruggere Seoul ed il desiderio di vedere riunificato un Paese da troppo tempo diviso da una tragica guerra conclusasi 60 anni orsono. Sin dall’armistizio sul 38° parallelo, le uniche costanti sono state il regime dinastico dei Kim e la loro ostinata intenzione di dotarsi di missili balistici a lungo raggio e di armi nucleari.

Tuttavia, dal 1998, una serie di fallimentari test balistici aveva illuso gli osservatori internazionali, inducendoli a credere che lo sviluppo del programma ICBM fosse più uno stratagemma per estorcere concessioni alla Comunità Internazionale che altro.

Il lancio a dicembre, con esiti sorprendentemente positivi, di un missile intercontinentale tri-stadio, camuffato da vettore spaziale, ha trasformato un’intenzione, fino ad allora velleitaria, in una prospettiva non priva di concretezza. Secondo i più recenti rapporti dell’intelligence americana, infatti, entro la fine del decennio Pyongyang potrebbe sviluppare la capacità di raggiungere le coste di Alaska e Hawaii e forse anche della California. Ma è stato il terzo test nucleare del 12 febbraio, condotto sottoterra per celare preziosi dati sull’entità e la tipologia dell’ordigno, a confermare la determinazione dell’ultimo Kim nel continuare la politica del pugno chiuso del padre (Song’un).

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