Geopolitical Weekly n.115

Geopolitical Weekly n.115

Di Francesca Manenti e Alessandra Virgili
06.06.2013

Egitto

Lo scorso due giugno, la Suprema Corte Costituzionale egiziana ha stabilito che la legge con cui è stato eletto il Consiglio della Shura, la Camera alta del Parlamento egiziano, dominata dagli islamisti con 150 seggi su 180, è incostituzionale. Nella stessa pronuncia sono state dichiarate illegittime anche le regole con cui sono stati selezionati i componenti della Commissione che ha redatto la nuova Costituzione egiziana, ispirata alla sharia. Boicottata dalle forze liberali e laiche perché dominata dagli islamici, l’Assemblea Costituente aveva dato vita a un testo costituzionale approvato in poco più di una notte e sottoposto a referendum popolare alla fine dello scorso anno.
La Corte ha stabilito che la Shura dovrà essere rieletta, ma solo dopo la formazione di una nuova Assemblea del popolo, la Camera bassa del Parlamento, sciolta a sua volta nello scorso giugno da un’altra sentenza d’incostituzionalità della stessa Consulta. Sui tempi delle nuove elezioni c’è dunque totale incertezza, considerato che anche la nuova bozza di legge elettorale era stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema negli scorsi giorni.
Sembra riaprirsi, quindi, la sfida dei giudici egiziani alle istituzioni islamiste, dominate dalla Fratellanza Musulmana dopo la caduta di Hosni Mubarak e il periodo di transizione guidato dal Consiglio Supremo delle Forze Armate. I giudici costituzionali potrebbero aver preso di mira il Consiglio della Shura anche a causa della sua proposta di riforma dell’ordinamento giudiziario, che potrebbe annullare l’attività di molti magistrati con l’anticipo dell’età pensionabile, aprendo la strada a personalità più vicine alla Fratellanza.
Il Partito Libertà e Giustizia, ala politica dei Fratelli Musulmani e prima forza del Paese, detiene oltre il 40 per cento dei seggi della Shura. L’opposizione – dal neonato gruppo “Fratelli Cristiani” al movimento legato all’Università al-Azhar, fino ad arrivare al Fronte di salvezza nazionale di opposizione guidato da Mohamed el-Baradei – appare sempre più preoccupata per l’eccessivo potere assunto dei Fratelli Musulmani e dei salafiti, temendo che esso possa essere utilizzato per la progressiva islamizzazione delle istituzioni. Gli stessi esponenti dell’opposizione accusano il Presidente egiziano, Mohamed Morsi, di aver fatto leva sui deputati della Fratellanza all’interno della Shura per promuovere un’agenda d’ispirazione meramente islamista, tradendo così la “rivoluzione”, che avrebbe dovuto incanalare il Paese verso un percorso democratico.

Il Presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, nella serata di domenica 2 maggio ha nominato nuovo Primo Ministro Rami Hamdallah, rettore dell’università al-Najah in Cisgiordania. L’annuncio è giunto allo scadere del termine ultimo entro cui designare il successore dell’ormai ex capo dell’esecutivo Salam Fayyad, che aveva rassegnato le dimissioni nell’aprile scorso, dopo settimane di diverbi con il Presidente riguardo la politica economica e l’opportunità di estendere le competenze del proprio incarico, assumendo anche la gestione del Ministero delle Finanze.
Alla sua prima esperienza politica, Hamdallah ha accettato l’incarico e ha ora cinque settimane per formare un esecutivo di transizione, che dovrebbe rimanere effettivo fino ad agosto ed essere poi sostituito con un nuovo governo di coalizione tra Fatah e Hamas. Lo scorso 14 maggio, infatti, rappresentati dei due movimenti – che, dal conflitto del 2007 seguito alla vittoria elettorale di Hamas, governano rispettivamente la Cisgiordania e la Striscia di Gaza – si sono incontrati a Il Cairo per discutere la formazione, entro tre mesi, di un governo di larghe intese e la definizione di una data per le prossime elezioni. I due partiti si erano già incontrati in Egitto, nel 2011, per cercare di trovare un accordo sulla formazione di un governo di coalizione ad interim in grado di guidare la Palestina fino alle elezioni legislative e presidenziali del 2012. Ma le difficoltà riscontrate nella scelta dei possibili membri aveva arenato ogni ulteriore passo avanti.
La nomina del nuovo Primo Ministro non ha però soddisfatto Hamas, che vede in essa una prosecuzione del governo precedente, imposta dal Presidente senza l’approvazione da parte del Consiglio Legislativo. Data la precarietà dei rapporti, la scelta da parte di Abbas di un nome estraneo ai due schieramenti, ma ritenuto essere vicino alle posizioni di Fatah, potrebbe portare ad un nuovo stallo nel tentativo di riavvicinamento tra le parti, rallentando ulteriormente il già precario processo di transizione politica.

Stati Uniti

Il Dipartimento di Stato ha offerto, lo scorso lunedì 3 giugno, ricompense fino a 23 milioni di dollari, un equivalente di 3,3 miliardi di naira nigeriane, per informazioni che portino alla cattura di alcuni leader di gruppi terroristici in Africa Occidentale e Settentrionale. L’attenzione degli Stati Uniti è rivolta, principalmente, al capo della setta islamista nigeriana Boko Haram, Abubakar Shekau, al comandante dell’emirato del Sahara di Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), Yahya Abu el-Hamam, ed infine al leader del Battaglione di Coloro che Firmano con il Sangue (BCFS), Mokhtar Belmokhtar. Gli Usa sono pronti a pagare 7 milioni di dollari per il capo del gruppo salafita nigeriano, mentre sono 10 i milioni di dollari della taglia su Belmokhtar e el-Hamam.
La scorsa settimana Shekau, già designato dagli Stati Uniti come Specially Designated Global Terrorist, ha fatto appello ai suoi compagni jihadisti in Iraq, Afghanistan e Pakistan, chiedendo loro di unirsi alla sua battaglia per la trasformazione della Nigeria in uno Stato islamico.
Mokhtar Belmokhtar è uno dei terroristi più pericolosi attivi nel Sahel e nel Sahara. Dopo la crisi degli ostaggi e l’attacco alle infrastrutture energetiche ad In Amenas, il leader del BCFS è tornato a colpire il 23 maggio in Niger, organizzando un duplice attentato contro una caserma ad Agadez e soprattutto ad una miniera di uranio ad Arlit.
Infine, Yahya Abu El Hamam, il cui vero nome è Jemal Oukacha, capo delle operazioni di Al-Qaeda nella regione del Sahel, in Nord Africa, è stato aggiunto alla lista americana degli Specially Designated Global Terrorist nel gennaio 2013, per le sue attività nel Nord Africa dal 1990. Il Dipartimento di Stato ha confermato la sua collaborazione nei rapimenti di cittadini occidentali nell’Africa dell’Ovest e negli attentati in Mauritania e in Mali. In quest’ultimo Stato, nella città di Timbuktu, per sua decisione, molti luoghi sacri musulmani sono stati distrutti e numerosi civili sono stati condannati a morte a causa dell’applicazione della Sharia.

Turchia

Da ormai una settimana, una serie di contestazioni di piazza stanno interessando le principali città della Turchia. Iniziate a Istanbul lo scorso 28 maggio, come sit-in a piazza Taksim contro il progetto di costruzione di un centro commerciale nell’attuale parco Gezi, le proteste si sono poi sviluppate in 48 città e l’originaria rivendicazione ambientalista ha lasciato il posto ad una più netta contestazione nei confronti del governo. In particolare, a destare preoccupazione è la condotta del Primo Ministro, e leader del Partito Giustizia e Sviluppo (AKP), Racep Tayyp Erdogan, accusato di voler dare una svolta autoritaria alla politica turca per raggiungere una progressiva islamizzazione dello Stato. Per esempio, forti critiche ha suscitato il recente provvedimento per la regolamentazione della vendita delle bevande alcoliche.
La violenza a cui è ricorsa la polizia per sedare le manifestazioni è stata la causa principale dell’aumento della tensione e della conseguente diffusione a macchia di leopardo delle proteste, a cui hanno aderito anche esponenti dei partiti di opposizione, tra cui il leader del Partito Popolare Repubblicano (CHP) e la Confederazione dei sindacati dei lavoratori pubblici (KESK), che ha indetto due giorni di sciopero generale in segno di protesta.
L’improvvisa ondata di contestazioni, che sta mettendo alla prova per la prima volta la stabilità politica del governo di Erdogan, ha destato la preoccupazione della comunità internazionale: in particolare, il Segretario di Stato americano, John Kerry, e l’Alto Rappresentate per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza dell’UE, Catherine Ashton, hanno richiesto alle autorità di Ankara un intervento immediato per riportare la situazione sotto controllo, scongiurando un possibile deterioramento delle condizioni di sicurezza in uno dei Paesi pilastro della NATO.
Il vice Primo Ministro, Bulent Arnic ha dichiarato che verrà fatta luce sugli avvenimenti di Gezi Park e ha presentato le scuse ufficiali del governo a quanti sono rimasti feriti negli scontri con la polizia. Rassicurazioni sullo stato di salute della democrazia turca sono giunte anche da parte del Ministro degli Esteri, Ahmet Davoutoglu, che ha definito gli incidenti dei giorni scorsi come abusi di singoli, indipendenti dalla volontà del governo di limitare il diritto di espressione da parte delle opposizioni. In tale contesto di alta tensione, occorre comprendere quale potrebbe essere la presa di posizione delle Forze Armate, tradizionali difensori dei valori laici e del kemalismo, nel caso in cui le proteste contro il governo islamico-moderato continuassero ad imperversare per il Paese. Infine, appare inappropriato paragonare le proteste a Istanbul ed ad Ankara ai movimenti della cosiddetta “Primavera Araba” del 2011. Infatti, la Turchia è un Paese di tradizione democratica e laica, che ha visto l’AKP vincere in elezioni libere e democratiche. Tali manifestazioni, quindi, vanno contestualizzate nel confronto tra governo ed opposizioni, al pari delle simili proteste che possono susseguirsi nei Paesi europei, e non hanno assolutamente né il carattere rivoluzionario né la violenza degli avvenimenti susseguitisi in Egitto o Siria.

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