Il fenomeno del Land Grabbing etiope: opportunità e minacce legate a una nuova forma di colonialismo
Africa

Il fenomeno del Land Grabbing etiope: opportunità e minacce legate a una nuova forma di colonialismo

Di Flavio Erriu
16.06.2015

Il XX secolo ha assistito alla crescita di un pressante processo di globalizzazione, il quale, basandosi sull’estensione del modello capitalista nelle aree più povere del pianeta e sul fenomeno dell’integrazione economica e dei commerci, ha richiesto l’implementazione di una struttura finanziaria dinamica, volta alla massimizzazione del profitto, attraverso la delocalizzazione delle filiere aziendali in quelle nazioni caratterizzate da un esiguo costo dei fattori produttivi. In questo contesto estremamente eterogeneo è emerso il problema del sostentamento alimentare della popolazione globale. Nel 2050 il pianeta sarà popolato da nove miliardi di persone e la disponibilità di terre coltivabili e la rispettiva produttività marginale tenderanno a ridursi drasticamente. Sullo sfondo emerge un processo socio-economico nuovo, il quale incarna lo spirito colonialista dei secoli precedenti: il cosiddetto “Land Grabbing”, letteralmente “rapina delle terre”. Comporta l’espropriazione da parte delle grandi Multinazionali e dei governi esteri (tramite l’impiego della liquidità a disposizione presso i fondi sovrani) di milioni ettari di terreni incolti, dall’Argentina al Sud-Est Asiatico, dal Sud Sudan al Mozambico, passando per il Kenya e l’Etiopia.

La ciclonica crisi finanziaria del 2008, oltre ad aver avuto forti ripercussioni sull’economia reale e sugli equilibri finanziari globali, ha determinato un forte incremento nel prezzo dei cereali e degli alimenti essenziali per l’essere umano. Le grandi potenze internazionali (Usa, Russia, Arabia Saudita) e le ex-economie emergenti quali Indonesia, Malesia, Cina, India ed Emirati Arabi hanno pensato di ovviare al problema acquisendo a prezzi esigui milioni di ettari di terre fertili posizionate in località strategiche per lo sviluppo di nuove filiere produttive, legate per esempio alla coltivazione della palma da olio per l’ottenimento di biocarburanti, richiesti insistentemente sul mercato e la coltivazione di cereali (impraticabile in paesi petrolio-dipendenti come la Russia e l’Arabia Saudita).

Dal 2005 ad oggi nei Paesi in via di sviluppo sono stati affittati o ceduti circa 227 milioni di ettari di terre, costringendo intere comunità ad un esilio forzato in zone urbanizzate ad hoc dai governi locali. Gli agricoltori cedono alle minacce e ai soprusi perpetrati da coloro che dovrebbero tutelare e salvaguardare le varie etnie e nel giro di pochi giorni si ritrovano senza fonti di sopravvivenza. La peculiarità aberrante del fenomeno è data dalle condizioni sotto le quali avvengono le trattative di cessione. La confederazione Oxfam (Oxford Committee for Famine Relief) ha analizzato 1100 contratti concernenti l’acquisizione di 67 milioni di ettari, di cui solo la metà in Africa, riscontrando notevoli anomalie di forma accompagnate da un’elevata corruzione. I fondi d’investimento si rivolgono direttamente ai Governi locali, i quali sono autorizzati dalle leggi statali ad affittare o cedere i terreni privati (non tutelati da contratti che ne legittimino il possesso da parte dei cittadini) ai migliori offerenti per uno o due dollari all’ettaro. L’obiettivo delle imprese è di delocalizzare la produzione di biocarburanti, cereali e l’estrazione di risorse minerarie per poter ottenere fette sempre più ampie nei mercati internazionali. Un esempio eclatante è rappresentato dall’Etiopia, dove l’ex primo ministro Meles Zenawi (deceduto nel 2012) e l’attuale presidente Girma Wolde- Giorgis hanno accolto gli investitori esteri offrendo incentivi fiscali e sottoscrivendo particolari contratti atti a garantire in teoria la crescita occupazionale etiope e nella realtà elevati margini di profitto per le stesse istituzioni governative.

Tra il 2007 e il 2015 è stato avviato un imponente processo di trasformazione della morfologia della Valle dell’Omo, zona fertile e densamente popolata dalle tribù Kwegu, Bodi, Mursi e dei Dassanech. Questo paradiso blu situato nella parte più verde e rigogliosa dell’Etiopia è diventato l’oggetto del desiderio per numerosi Investitori istituzionali, i quali sotto la guida della Industrial and commercial Bank of China (ICBC), hanno commissionato al gruppo italiano Salini Costruttori la realizzazione di un’imponente diga rinominata Gibe III, in grado di stravolgere gli atavici equilibri ambientali. Questo progetto agro-industriale, chiamato Kuraz sugar project, che prevede la compartecipazione della Banca Mondiale per quanto concerne il finanziamento delle reti di trasmissione energetica, sta rivoluzionando il paesaggio nella zona della bassa Valle dell’Omo attraverso la deforestazione, necessaria per lasciar posto a immense coltivazioni di mais, cotone e palma da olio per la produzione di biocarburanti e il prosciugamento dello stesso fiume con la riduzione delle riserve di pesce, essenziali per la sopravvivenza della tribù Kwegu. Il governo etiope sta devastando un’area incontaminata e amena abitata da 20mila indigeni, in nome della crescita e del processo di globalizzazione dal quale non vogliono essere esclusi. L’African Agriland Fund, un fondo londinese che si occupa di valutare la profittabilità degli investimenti nelle economie più povere o emergenti garantisce rendite superiori al 25% per coloro che investiranno nel settore agricolo e dei biocombustibili. Se da un lato il programma governativo si espone al vento della crescita e della tutela dell’economia locale, dall’altro si trova dinnanzi alla punta di un iceberg in grado di lacerare il labile equilibrio socio- politico nazionale. I granai e le mandrie delle comunità Kwegu e Mursi, distribuiti su 245 mila ettari vengo distrutti sistematicamente da parte dell’esercito. I Bodi non potranno più soffermarsi ad ammirare la bellezza dei loro animali e a comporre inni in loro onore come hanno fatto i loro avi per generazioni; le donne non potranno più gestire l’attività agricola loro affidata dalla comunità e soddisfare le richieste alimentari delle rispettive famiglie.

Tutto questo avviene in contraddizione con l’articolo 18 della Costituzione etiope, il quale decreta l’obbligo di proteggere ciascun cittadino contro ogni trattamento degradante e crudele. Ancora l’articolo 46 stabilisce i limiti territoriali tra gli Stati federali e il rispetto del consenso delle popolazioni interessate. Queste norme sono state dimenticate nel perseguimento di una politica volta al “divide et impera”, che ha spinto il governo a reprimere la popolazione dei Somali-Issa nelle città di Codaytu, Xundhufo, Afcase e Canbuus in seguito alle proteste contro la carcerazione degli amministratori locali, i quali si erano opposti alla realizzazione di nuovi confini tra le regioni degli Afar e dei Somali, necessari per poter procedere ad una nuova spartizione delle terre coltivabili.

Attualmente in Etiopia sono stati ceduti 3,2 milioni di ettari, ma potranno triplicare nel breve periodo senza un pronto intervento da parte della comunità internazionale. Il Land Grabbing, proposto dalla banca mondiale e dalle organizzazioni internazionali per far fronte alla crescente necessità di cibo e di fonti energetiche alternative, si è trasformato in uno strumento di persecuzione, devastazione e riduzione dei complessi equilibri politico-sociali interni. Il rispetto del diritto ad usufruire delle terre e delle risorse correlate, la necessità di garantire la sicurezza alimentare, la promozione di investimenti responsabili e la ricerca di una sostenibilità sociale e ambientale sono state disattese e si rischia di aggravare la povertà e la sperequazione sociale in un territorio già devastato dalle piaghe delle persecuzioni etniche, della corruzione e del fanatismo religioso. Nel 2014 il governo USA, il quale compare al primo posto nella particolare classifica degli speculatori terrieri con 7,06 milioni di ettari acquistati attraverso la sottoscrizione di 84 contratti in diverse zone africane e del sud-est asiatico, ha approvato una legge contro i trasferimenti forzati delle popolazioni nella regione della bassa Valle dell’Omo e di Gambella. La riforma, segnalata dal centro di ricerche ambientali “Oakland Institute”, determina un cambio di rotta nella politica economica estera statunitense e nei rapporti con il martoriato Paese africano. Ora tutte le solide economie asiatiche e occidentali devono seguire questo percorso coinvolgendo le comunità locali, chiedendo maggiore trasparenza e rispetto da parte dei Governi centrali e riducendo le proprie mire speculative. Un antico proverbio africano afferma: “Noi non ereditiamo la terra dai nostri padri, la prendiamo in prestito dai nostri figli”. In queste poche parole è racchiuso il profondo legame tra le tribù locali e le loro terre. È necessario limare i principali effetti negativi del Land Grabbing, correlati all’espropriazione indiscriminata dei terreni privati e l’asimmetria tra i diritti delle popolazioni indigene e dei potenziali investitori esteri, i quali comportano l’emersione di rischi derivanti da un’evidente perdita di sovranità dei governi nazionali africani, con la conseguente insorgenza di nuove tensioni sociali e politiche.

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