Geopolitical Weekly n.108

Geopolitical Weekly n.108

Di Andrea Ranelletti e Giulia Tarozzi
18.04.2013

Afghanistan

Nonostante il prossimo ritiro delle forze NATO, si continua a registrare un alto livello di violenze in Afghanistan: una serie di attentati e scontri a fuoco ha causato oltre 20 vittime in varie parti del Paese. Il 14 aprile nel distretto di Shindand (provincia di Herat), uno IED ha colpito un mezzo blindato “Lince” dell’Esercito italiano, ferendo due militari dell’82mo Reggimento fanteria “Torino”; alcuni giorni dopo, nello stesso distretto, un altro IED ha fatto saltare in aria un furgone, uccidendo 8 civili afghani. Martedì 16 aprile, 5 membri delle Forze di sicurezza sono stati uccisi in un’imboscata nella provincia di Wardak, mentre facevano da scorta ad un convoglio. Nel Nord, nella provincia di Jowzjan, 6 soldati afghani sono stati trovati morti lungo la principale autostrada dell’area.
Ieri si è intanto tenuto il funerale di Anne Smedinghoff, diplomatica americana 25enne, uccisa a Qalat (provincia di Zabul) sabato 6 aprile da un attentatore suicida mentre si spostava assieme ad un convoglio armato dalla base militare americana ad una scuola per consegnare libri di testo. Assieme a lei, sono rimasti uccisi tre soldati statunitensi e un impiegato del Dipartimento della Difesa. Anne Smedinghoff è il primo membro del Dipartimento di Stato ucciso in 12 anni di conflitto afghano.
Aprile è stato finora il mese con più vittime afghane del 2013: oltre 180 persone, tra civili e Forze di Sicurezza, sono rimaste uccise in tutto il Paese. Il numero di vittime civili nel corso del 2012 è stato pari a 2.754, dei quali circa l’80% dovute alla violenza talebana. Inoltre, gli attacchi nei confronti delle Forze dell’ordine afghane ha causato la morte di circa 1.200 soldati afghani e di circa 1.800 poliziotti nel corso del 2012. Tali numeri potrebbero causare un inasprimento dei contrasti sulle modalità e le tempistiche del ritiro delle truppe NATO impegnate in Afghanistan, cui dovrebbe seguire l’affidamento progressivo del controllo della sicurezza nel Paese alle Forze afghane.

Iraq

Il 18 aprile un attentatore suicida si è fatto esplodere in un caffè nel quartiere sunnita di Amiriyah, a Baghdad. Il bilancio è di 26 morti e oltre 50 feriti. L’attacco arriva a pochi giorni di distanza da un’altra serie di attentati in cui almeno 36 persone sono state uccise e circa 200 sono rimaste ferite. Gli attentati suicidi sono avvenuti a Baghdad, Falluja, nel centro, a Kirkuk e Salahddin, nel nord dell’Iraq. Inoltre quattro autobombe sono esplose a Tuz Khurmatu, nel nord-est del Paese, dove sono rimaste uccise altre sei persone e 60 sono state ferite. Se in quest’ultimo caso le tre autobombe sono esplose a pochi minuti di distanza l’una dall’altra ma nello stesso luogo, nella città di Kirkuk sei ordigni sono esplosi simultaneamente in quattro zone differenti: nel centro città, nell’area curda, nel distretto arabo e in quello turcomanno.
Per ora nessun gruppo ha ancora rivendicato l’attacco di lunedì, ma va sottolineato che nell’ultimo periodo le tensioni tra sunniti e sciiti nell’area sono cresciute a causa della costante marginalizzazione della comunità sunnita da parte del governo. Recentemente, inoltre, al-Qaeda in Iraq ha annunciato di voler sferrare una serie di attentati anti-governativi a ridosso delle elezioni locali: gli attacchi coordinati sono una delle tattiche preferite della propaggine irachena di al-Qaeda.
Al voto nelle province si andrà, per la prima volta nel Paese dal ritiro delle truppe statunitensi, il 20 aprile prossimo. Le elezioni amministrative sono un test decisivo per il governo del premier sciita Nuri al Maliki, soprattutto in vista delle consultazioni legislative dell’anno prossimo.

Siria

Il 17 aprile a Qusayr, cittadina a pochi chilometri dalla frontiera col Libano e a sud-ovest di Homs, sono morti cinque combattenti di Hezbollah appartenenti al gruppo di circa 1.200 miliziani che negli ultimi giorni è arrivato in Siria per sostenere il regime di Bashar al Assad. 
Nonostante Qusayr sia assediata dalle forze governative, maggioritarie nella zona di Homs, uno dei centri principali della rivolta, nella cittadina attualmente combattono circa 5.000 uomini del Free Syrian Army che il 18 aprile hanno preso il controllo della maggior parte della base militare di Dabaa. I ribelli dell’FSA sono per lo più sunniti ed è proprio per contrastarli che il Partito di Dio ha iniziato ad operare nella zona. Secondo quanto dichiarato da Hasan Nasrallah, leader di Hezbollah, l’intervento dei miliziani libanesi è volto alla protezione delle comunità sciite in Siria. Inoltre, gli uomini del Partito di Dio starebbero cercando dì ridurre la presenza dell’FSA nell’area e tagliare loro i rifornimenti.
Nel frattempo è diventata centrale la questione dell’utilizzo delle armi chimiche. Negli ultimi mesi Assad ha segnalato alle Nazioni Unite le forze di opposizione per l’impiego di armi chimiche, utilizzate per un attacco ad Aleppo. Di riamando, i ribelli hanno accusato l’Esercito siriano per altri tre attacchi dello stesso tipo.
L’effettivo impiego di tali armi sul suolo siriano potrebbe comportare un maggior coinvolgimento nel conflitto di alcuni Stati occidentali, come affermato la scorsa estate dagli Stati Uniti, a cominciare da un progressivo allentamento dell’embargo delle armi verso il Paese, già richiesto da Francia e Gran Bretagna. Per verificare la situazione, il Segretario dell’Onu Ban Ki Moon ha mobilitato un team con a capo lo scienziato svedese Ake Sellstroem. Assad ha acconsentito l’accesso del team all’area di Aleppo, ma, asserendo di non poterne garantire l’incolumità, ha proibito la visita alle altre zone di presunti attacchi chimici. Senza un controllo completo di tutte le aree dei sospetti attacchi, le verifiche effettuabili da Sellstroem non avrebbero significato. Pertanto, in attesa di un diverso mandato che dovrebbe essere approvato dal Consiglio di Sicurezza, cosa al momento poco probabile, il suo team rimarrà a Cipro, dove si trova attualmente.

Somalia

Il 14 aprile a Mogadiscio, un commando di attentatori suicidi appartenenti ad al-Shabaab (gruppo terrorista affiliato ad al-Qaeda) ha assaltato l’edificio della Corte Suprema e l’aeroporto, dove si riunisce il governo. Negli attacchi sono morte 29 persone e 58 sono rimaste ferite. Il portavoce di al-Shabaab, Abdiasis Abu Musab, ha dichiarato che l’attentato è stato svolto allo scopo di porre fine al corso del governo che è stato formato lo scorso anno.
Questo è il primo attacco su larga scala che al-Shabaab ha compiuto da quando ha perso il controllo dei propri bastioni a Mogadiscio nell’agosto del 2011, ad opera delle forze di AMISOM (African Union Mission to Somalia) e dell’ENS (Esercito nazionale Somalo). Nonostante il gruppo terrorista abbia continuato la propria strategia di guerriglia nelle aree urbane, negli ultimi mesi le sue attività si sono concentrate principalmente nei villaggi e nelle aree rurali del centro e del sud della Somalia, delle quali detiene ancora il controllo.
Pertanto al-Shabaab ha mostrato che, nonostante gli sforzi di AMISOM per liberare la capitale, è ancora in grado di penetrare all’interno di Mogadiscio e colpire gli obbiettivi sensibili del governo e delle Forze Armate.

Venezuela

Le elezioni presidenziali del 14 aprile hanno visto Nicolas Maduro, ex vice-Presidente e successore di Hugo Chavez alla guida del Partito Socialista Unito del Venezuela, prevalere con uno stretto margine su Henrique Capriles, candidato del partito d’opposizione Prima la Giustizia. L’esiguo distacco tra i due candidati (il 50,6 contro il 49,3, pari a circa 262mila voti) ha indotto Capriles a chiedere un riconteggio dei voti e a indire una marcia dell’opposizione per le strade di Caracas, aumentando il livello di tensione nel Paese. La lunga catena di incidenti tra sostenitori di Maduro e oppositori, che ha causato 7 morti e centinaia di arresti, ha portato Capriles ad annullare la manifestazione.
Il Segretario di Stato americano John Kerry è intervenuto chiedendo un nuovo conteggio del risultato e non ha ancora ufficialmente riconosciuto Nicolas Maduro come Presidente del Paese. In risposta, Maduro ha dichiarato di possedere prove riguardanti il coinvolgimento degli Stati Uniti nei disordini del Paese, nell’ambito di un complotto teso a sovvertire l’ordine nel Paese. La scomparsa di Hugo Chavez ha privato il Partito Socialista venezuelano di un leader di grande carisma, amato dalle classi popolari e ben visto dai vertici delle Forze Armate: l’aumento della conflittualità e l’inasprimento delle tensioni con l’opposizione complica ulteriormente la situazione per il nuovo Presidente Nicolas Maduro.

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