La situazione irachena alla luce del ritiro americano
Medio Oriente e Nord Africa

La situazione irachena alla luce del ritiro americano

Di Valentina Palumbo
03.11.2011

Si appresta a giungere a termine lo Status of Force Agreement (SOFA) siglato dall’amministrazione Bush con il governo Al Maliki nel 2008. Sulla base di questo accordo le truppe americane lasceranno completamente il territorio iracheno entro il 31 dicembre 2011.

Il ritiro ha avuto inizio nel giugno del 2009 e delle 150.000 truppe presenti all’epoca in Iraq ne restano oggi circa 40 000 da ritirarsi nei prossimi due mesi e mezzo.
Il SOFA si basa innanzitutto sul presupposto che la presenza delle truppe americane sul territorio iracheno è nell’interesse di quest’ultimo ed è subordinato alla richiesta formale del suo governo. L’accordo definisce inoltre lo status del personale e delle proprietà statunitensi nel paese.

L’amministrazione Obama ha, negli ultimi mesi, tentato di indurre il governo di Nouri Al Maliki ad una rinegoziazione dell’Agreement ritenendo necessario garantire una presenza militare ridotta anche dopo il 31 dicembre. Il governo iracheno ha dimostrato di non essere disposto a considerare il SOFA né emendabile  né rinegoziabile.
Innanzitutto lo status di quasi totale immunità nei confronti della giurisdizione irachena riconosciuto al personale civile e militare americano dall’art 12 dell’accordo, è stato, per il governo che ha ratificato l’accordo, una ragione di forte impopolarità.

Ulteriore peso ha avuto la posizione di Sayyid Muqtadā al-Sadr, e dei suoi seguaci. Da settembre è in vigore una tregua negli attacchi alle forze occupanti proprio in ragione dell’atteso ritiro, ferma restando tuttavia la minaccia di una ripresa dell’escalation se tale permanenza dovesse protrarsi oltre il termine concordato. L’attuale amministrazione irachena è consapevole del fatto che la sua sopravvivenza politica dipende dal sostegno fornito dallo schieramento di Al Sadr senza il quale avrebbe assunto il potere il leader di Al Iraqiya, Ayad Allawi.

Se la permanenza di un presidio militare potrebbe essere plausibilmente causa della già minacciata ripresa della lotta interna dei sadristi e delle milizie antiamericane, non è da escludere che l’opzione contraria, ovvero un rispetto alla lettera degli impegni presi con il SOFA non possa accrescere ancor di più la posizione di Al Sadr nel paese.

Già nelle ultime elezioni il Partito Al Ahrar, di cui questi è leader, si è qualificato come l’asse portante dell’Alleanza Nazionale Irachena, la coalizione dei partiti sciiti islamisti, aggiudicandosi la maggioranza dei seggi vinti da quest’ultima. Al Sadr gode del sostegno delle classi più basse della popolazione sciita, soprattutto per le sue rivendicazioni di carattere sociale e per l’accento posto sull’educazione religiosa; il suo nuovo movimento “Munasirun”, registrerebbe migliaia di adepti. Le milizie Mahdi, ricordate soprattutto per gli scontri violenti negli anni più sanguinosi dell’occupazione americana (2006-2007) sono state smembrate nel 2008 a seguito della sconfitta di Bassora; i suoi membri sono tuttavia ancora armati ed Al Sadr gode di influenza tale da poterle far rivivere se necessario.

Un altro effetto dell’abbandono dell’Iraq potrebbe essere, del resto, un rafforzamento ulteriore del potere di Al Maliki. Le principali istituzioni demandate al controllo elettorale sono state poste all’inizio dell’anno sotto il controllo dell’esecutivo. Il Primo Ministro gestisce direttamente la 26esima brigata della sesta divisione dell’esercito. In occasione delle manifestazioni susseguitesi a ridosso della Primavera Araba il governo ha del resto dimostrato anche un irrigidimento delle proprie posizioni rispondendo con il coprifuoco, il blocco delle strade ed in molti casi con la violenza. Il governo ha accusato alternativamente elementi “saddamisti” o membri di al-Qaeda di essere dietro alle proteste di piazza.

I Curdi sono uno dei gruppi che più potrebbe risentire del ritiro delle truppe americane. Dopo aver combattuto al loro fianco nel 2003 contro Saddam Hussein, le loro milizie, i Peshmerga, hanno goduto dopo la fine della guerra del privilegio di poter continuare legalmente a detenere le armi in eccezione alle direttive fornite dalle forze della coalizione. Il ritiro potrebbe comportare una ripresa dei conflitti con il governo centrale soprattutto per ciò che concerne il controllo delle risorse petrolifere della regione (soprattutto la zona attorno a Kirkuk). Il governo iracheno contesta gli accordi di fornitura firmati autonomamente dal Kurdistan con compagnie straniere.

Ad accrescere il livello di vulnerabilità della regione contribuisce anche il fatto di essere il terreno di scontro tra i partiti curdi Pjak e PKK ed i loro rispettivi governi centrali che vi compiono spesso incursioni e bombardamenti.

La principale fonte di preoccupazione da parte degli Stati Uniti resta tuttavia l’Iran: il ritiro delle truppe americane potrebbe favorire la sua influenza in Iraq e sulla maggioranza sciita. Uno degli strumenti di principale penetrazione in Iraq è stato il Consiglio Superiore per la Rivoluzione Islamica in Iraq - SCIRI (dal 2007 Consiglio Supremo Islamico in Iraq - ISCI), fondato nel 1982 in Iran dall’Ayatollah Al Hakim dopo che questi vi si era rifugiato nel 1979. Lo SCIRI è stato usato in passato per addestrare gli sciiti espatriati, che avrebbero combattuto in Iraq contro il regime Baathista a partire dalla guerra Iran-Iraq degli anni 80. Attualmente l’ISCI è uno dei più grandi partiti sciiti ed è diretto dal figlio di Al Hakim.

Dopo gli scontri tra le forze regolari e le Milizie del Mahdi, nel 2008, lo stesso Al Sadr ha trovato rifugio in Iran ed è attualmente vicino ai suoi ambienti religiosi.
Inoltre già da prima della sconfitta di Bassora, i Qods iraniani finanziavano Kata’ib Hezbollah e Asa’ib Ahl al-Haqdi. Queste milizie hanno affiancato quelle del Mahdi contro le forze statunitensi e  gli sono sopravvissute. Le Milizie del Giorno Promesso, fondate dopo lo scioglimento delle Milizie del Mahdi, rappresentano un altro gruppo armato sciita e seguono anch’esse gli ordini di Tehran.

Obiettivo strategico dell’Iran è stato per anni quello di impedire la rinascita di un potente Stato sunnita iracheno che potesse costituire una minaccia ai suoi confini. Per fare questo l’Iran ha tratto vantaggio dal mantenimento di una certa instabilità nel paese, soprattutto a spese delle potenze occupanti. Il ritiro delle forze americane apre tuttavia nuovi scenari, soprattutto perché l’amministrazione che nel frattempo si è consolidata è sciita; in questo contesto è più vantaggioso uno Stato iracheno stabile ed amico ai propri confini piuttosto che la prospettiva di un failed state. Un regime sciita consolidato potrebbe, inoltre, rimettere in causa la questione di un Kurdistan iracheno, che ha fatto a lungo temere ai persiani un possibile effetto domino tra i curdi del Pjak.

Emblematico risulta essere inoltre il caso del Campo di Ashraf. Base irachena dal 1986 di un gruppo di dissidenti iraniani (Mujahedin-e Khalq), sono stati a lungo sostenuti da Saddam Hussein in funzione anti-iraniana, soprattutto durante la guerra Iran-Iraq. Dopo il conflitto del 2003 gli Stati Uniti hanno smilitarizzato e collocato il campo sotto la protezione della IV Convenzione di Ginevra. L’inizio del ritiro americano è coinciso con la consegna in mano governativa del controllo del Campo. Il governo mira al suo smantellamento e all’evacuazione dei suoi abitanti e ciò ha condotto ad una ripresa delle violenze e ai massacri del luglio 2009 e dell’aprile 2011.

L’Iran a sua volta ha fatto spesso pressioni al governo iracheno perché i residenti di Ashraf vengano rimpatriati. La consegna potrebbe essere il suggello di un’ulteriore rafforzamento delle relazioni tra Iran ed Iraq.

Il ritiro delle forze americane potrebbe in generale avere effetto sul deterioramento della sicurezza del paese e sull’accrescimento della vulnerabilità nei confronti di un eventuale risurrezione di Al Qaeda-Iraq. Le forze di sicurezza irachene risultano ancora deboli in settori quali il coordinamento dell’intelligence e il controllo aereo per i quali sono ancora del tutto dipendenti dalle forze americane.

I possibili scenari di un Iraq de-americanizzato rendono quindi conto della preoccupazione di New York e dei tentativi di ridefinire la sua presenza in Iraq.

Certamente un ruolo decisivo verrà rivestito in futuro dalle rappresentanze diplomatiche, che assumeranno alcune delle mansioni finora svolte dalle forze armate statunitensi, quali la gestione del programma di sviluppo delle forze di polizia e l’assistenza tecnica alle amministrazioni locali. Gli Stati Uniti restano inoltre un partner strategico dei Curdi iracheni e si spenderanno affinché la loro posizione sia tutelata. La stessa politica di Al Maliki, infine, si è dimostrata capace finora di muoversi tra l’apertura all’Iran e la preoccupazione di preservare una identità nazionale irachena;  in questo atteggiamento ambivalente potrebbe alla fine trovare spazio una qualche forma di presidio americano.

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