L’African National Congress tra stabilità e incertezza
Africa

L’African National Congress tra stabilità e incertezza

Di Anna Miykova
30.09.2014

A distanza di vent’anni delle prime elezioni libere e multirazziali nella storia del Paese (27 aprile 1994), l’African National Congress (ANC) rappresenta ancora la principale forza politica del Sudafrica. Questo ruolo ha trovato ulteriore conferma alle elezioni politiche dello scorso 7 maggio, quando l’ANC si è aggiudicato la quarta vittoria consecutiva confermando alla guida del Paese il Presidente uscente Jacob Zuma. Tuttavia, nonostante il recente successo elettorale abbia riaffermato la straordinaria egemonia politica dell’ANC, che in questo ventennio è stato in grado di dominare la scena politica raccogliendo le istanze della popolazione nera, il partito e specialmente il suo leader Zuma hanno registrato un ulteriore calo dei consensi rispetto alle elezioni del 2009 con una perdita di quasi tre punti percentuali. In questo senso, quindi, è ravvisabile una progressiva seppur impercettibile flessione del sostegno popolare al partito sin dal mandato del 2004, quando l’ANC usciva vittorioso dalle elezioni con una soglia altissima pari al 69,69%.

Il risultato ottenuto dall’ANC lo scorso 7 maggio, pari al 62,15% con 255 seggi in Parlamento (9 in meno rispetto alla tornata elettorale del 2009) è stato il più basso registrato dalla sua ascesa al potere. Al contrario, le ultime elezioni hanno visto avanzare il principale partito di opposizione, la Democratic Alliance (DA) guidata dall’ex attivista bianca e attuale Presidente della Provincia del Western Cape, Helen Zille, che si è aggiudicata il 22,23% fallendo tuttavia nell’intento conquistare la provincia del Gauteng e la sua capitale Johannensburg, rimaste sotto il controllo dell’ANC. Infine, l’Economic Freedom Fighters (ECC) si è affermato come terza forza politica riuscendo a conquistare da solo il 6,3% e superando ampiamente la soglia del milione di voti. Si tratta di un fatto eccezionale e meritevole di attenzione poiché l’ECC è un partito sostanzialmente giovane apparso sulla scena politica sudafricana soltanto dall’agosto del 2013 per iniziativa di Julius Malema, ex segretario della Youth League dell’ANC espulso dai vertici del partito nel 2012 per una serie di aspri contrasti ideologici e personali con Zuma e la vecchia leadership.

Di fronte ai risultati ottenuti dai tre principali partiti sudafricani, la recente chiamata alle urne ha rappresentato la cartina di tornasole per la diffusa disaffezione nei confronti dell’ANC e ha messo in luce i diversi fattori che hanno contribuito ad alimentarla. A questo proposito, di recente Zuma è stato protagonista di uno scandalo che ha rischiato di segnare l’epilogo della sua carriera politica. Infatti, le accuse di corruzione e di stupro nonché l’inchiesta che aveva confermato l’utilizzo di oltre 15 milioni di euro prelevati dalle casse pubbliche per ristrutturare la sua casa a Nkandla hanno significativamente deteriorato l’immagine del Presidente pur non provocandone l’estromissione dalla vita politica. Sinora appare evidente come la volontà di proteggere Zuma, e in questo senso il vertice del partito, non sia stata mossa da legami ideologici ma sia stata una necessità puramente funzionale a difendere l’intero establishment di potere per spirito di autoconservazione burocratica. Non è da escludere, tuttavia, come già accadde nel 2008 al suo predecessore Thabo Mbeki, che Zuma possa essere sostituito prima della scadenza del suo mandato presidenziale che molto probabilmente potrebbe essere l’ultimo anche in qualità di leader dell’ANC. Alla luce degli sforzi profusi nella campagna elettorale per tutelare la figura di Zuma appare, infatti, plausibile che i vertici dell’ANC possano optare per un nuovo leader che goda di sostegno e popolarità, come già dimostrato dalla proposta, successivamente esclusa perché contraria alla legislazione sudafricana, di mettere il volto di Mandela e non quello di Zuma sulle schede elettorali. Questo tentativo di recuperare la buona immagine del partito, cavalcando l’onda emotiva per la perdita del padre politico della nazione, appare giustificabile anche alla luce dei fischi che una fazione dell’ANC del Gauteng ha indirizzato a Zuma, durante il Mandela Memorial Day dello scorso dicembre, confermando sostanzialmente che in seno al partito si sta configurando una frattura tra i suoi sostenitori e i suoi possibili futuri detrattori.

Oltre alle vicende personali di Zuma, ulteriori fattori determinanti per l’erosione dei consensi all’ANC sono stati le sue vulnerabilità endemiche e una conduzione politica squilibrata. Infatti, l’ininterrotta gestione ventennale del potere da parte dell’ANC ha prodotto una certa sovrapposizione tra le strutture dello Stato e quelle del partito indebolendo la democraticità nel Paese e determinando l’affermazione di un sistema pressoché monopartitico e autoreferenziale. In questo senso, il partito ha inevitabilmente attirato le accuse di una consistente fetta dell’elettorato secondo cui l’ANC si sarebbe esposto alla corruzione e sarebbe stato sedotto dalle pratiche clientelari e dai favoritismi familistici. Di conseguenza, queste accuse unitamente alla sostanziale mancanza di un ricambio della classe dirigente hanno evidenziato lo scontro generazionale, anche in seno al partito, tra la vecchia gerarchia e giovani burocrati in cerca di un ruolo più incisivo all’interno dell’ANC. All’interno della società, questo scontro rispecchia la contrapposizione in atto tra la generazione dei nati prima del 1994 che hanno vissuto pienamente il regime dell’apartheid, partecipando alle lotte politiche e rendendosi protagonisti dei cambiamenti socio-politici, e tra la born free generation (nati liberi), la cui affiliazione al partito è ereditata e, per questo, meno sentita e più blanda. In alcuni casi, l’aver acquisito tardi una coscienza politica ha portato la nuova generazione, ad avvicinarsi naturalmente a posizioni più oltranziste e a subire il fascino della figura giovane, carismatica e combattiva quale quella del leader populista dell’ECC, Julius Malema, a scapito dell’anziano rappresentante della vecchia generazione, Jacob Zuma. Risulta particolarmente rilevante come questo abbia contribuito a far confluire una parte dei giovani elettori e dei diseredati delle baraccopoli nere, privi di una prospettiva di miglioramento per le proprie condizioni socio-economiche, nelle fila dei sostenitori dell’ECC, che ha fatto della lotta per i diritti delle fasce più deboli e marginalizzate il suo slogan politico. Per questo motivo, il nuovo mandato di governo dell’ANC rappresenterà un importante banco di prova specialmente verso quei giovani che sono stati chiamati a votare per la prima volta e che hanno scelto di sostenere il partito sull’onda delle passate conquiste socio-politiche di Madiba, non tanto per condivisione ideologica ma creando una linea di continuità con le posizioni politiche familiari.

La perdita di una fetta del proprio elettorato non è l’unica problematica che il partito deve affrontare. Infatti, allo stato attuale la questione socio-economica rappresenta ancora la principale criticità politica e di sicurezza per il Sudafrica, non solo a livello nazionale ma anche a livello internazionale soprattutto per via delle implicazioni sull’economia internazionale e sugli interessi delle compagnie estere impegnate nello sfruttamento delle ricche miniere sudafricane. A questo proposito, l’attuale Governo è ritenuto responsabile di non aver generato un processo di sviluppo equo e sostenibile ma di aver perseguito una politica esclusivista volta all’arricchimento delle oligarchie in particolare quelle connesse all’industria pesante. Appare doveroso sottolineare come nonostante, nel decennio scorso, si sia verificata una crescita economica vigorosa tale da includere il Sudafrica nel novero dei Paesi emergenti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e posizionarlo in maniera più incisiva sulla scena internazionale, questa non ha rappresentato un incremento del livello di benessere diffuso ad ampie fasce della popolazione e ha al contrario acutizzato le tensioni sociali. Inoltre, Zuma e l’establishment di governo si sono dimostrati incapaci di implementare una politica volta al miglioramento dei diritti sociali e lavorativi della popolazione innescando, già dal 2012 una serie di accesi e a volte violenti scioperi, a conferma del tristemente noto “massacro di Marikana”, quando 34 operai dell’omonima miniera di platino furono uccisi dalla polizia nel tentativo di disperdere i manifestanti.

A questo proposito, lo scorso 24 giugno si è concluso lo sciopero più lungo della storia sudafricana che ha messo a dura prova le volontà negoziali del Governo. In questa circostanza, l’ANC ha mostrato un atteggiamento più conciliatorio e, a distanza di cinque mesi, l’Association of Mineworkers and Construction Union (AMCU), il sindacato autonomo protagonista delle manifestazioni di Marikana dell’agosto 2012, è riuscito a ottenere un aumento salariale per i lavoratori meno qualificati di circa 1000 rand (70 euro) al mese per i prossimi tre anni. Benché con la conclusione dell’accordo il partito abbia voluto dare un segnale di vicinanza alla causa dei lavoratori, accettando parte delle condizioni avanzate, l’episodio ha comportato una perdita di oltre 2,20 miliardi di dollari per il Paese. Il grave danno economico, tuttavia, non deve essere letto solo in una prospettiva interna, ma anche in un’ottica globale. Infatti, le manifestazioni di malcontento unitamente alle pesanti ricadute economiche costituiscono un passo indietro nell’obiettivo di un rilancio del Paese sullo scacchiere internazionale e quale potenza egemone sullo scacchiere africano. Inoltre, le proteste hanno generato un’improvvisa impennata del prezzo mondiale del platino determinando una conseguente riduzione degli investimenti diretti esteri e alla luce di questi rischi economici, il Sudafrica potrebbe risultare meno attraente agli occhi dei competitor africani e per i partner stranieri.

A fronte di un progressivo abbandono dell’idea mandeliana della “Rainbow Nation”, ovvero di una nazione che lotta contro la discriminazione promuovendo l’equità sociale e politica e la risoluzione pacifica dei conflitti sul continente africano, l’attuale politica estera di Pretoria tende a un approccio più realista delle relazioni con gli altri Stati. In proposito, appare significativo come durante la crisi centrafricana il Governo di Zuma abbia appoggiato, nell’ambito di un accordo di cooperazione militare e partnership economica nel settore minerario, la politica africanista di Bozizé contro la coalizione antigovernativa Séléka, sostenuta invece dalla Francia e dal Ciad nel tentativo di arginare l’influenza di Pretoria in un’area ritenuta d’importanza strategica per Parigi. Nonostante l’evidente volontà di promuovere i propri interessi abbia valso, in quell’occasione, l’accusa di politica egemonica ed imperialista al governo Zuma, che potrebbe creare non poche difficoltà nelle future relazioni con l’Occidente, l’ANC sembra improntato portare avanti una realpolitik multipolare.

A vent’anni dalla presa di potere da parte dell’ANC, la società sudafricana risulta profondamente cambiata e a giudicare dalle numerose manifestazioni di dissenso che hanno scosso la politica interna e dalla progressiva frammentazione in seno al partito stesso, l’ANC sembra aver esaurito la spinta modernizzatrice che ha caratterizzato l’era di Mandela. In una prospettiva di lungo periodo, infatti, è ravvisabile la necessità per il partito di svecchiare le strutture di potere e di adottare strategie innovative per rispondere all’evoluzione sociale e politica che ha interessato il Paese nell’ultimo decennio. Qualora l’establishment di governo non sia in grado di gestire eventuali future sociali e di implementare un piano di sviluppo sostenibile ed equo, in grado di determinare un miglioramento delle condizioni lavorative e sociali della popolazione sudafricana risulterà sempre più esposto alle critiche dell’elettorato e, in taluni casi, anche da parte di fazioni più estreme. Questa eventualità potrebbe dunque portare a una definitiva perdita della legittimità dell’ANC, con un conseguente drammatico crollo dei consensi popolari, o dall’altro, come già dimostrato dalla nascita dell’ECC, da una frammentazione del partito in fazioni più piccole.

L’eventualità che il partito sia esposto a un progressivo fazionismo endemico rappresenta, in realtà, anche lo specchio del Sudafrica che appare oggi sempre più diviso, con la differenza che la diseguaglianza economica non si pone più tra boeri e maggioranza nera, ma è interna a quest’ultima ed è dimostrata dalla nascita di una classe medio-borghese nera che ha fatto fortuna nell’industria pesante del Paese spesso attraverso una serie di legami clientelari con il partito. A questo proposito, suscita molti timori il fatto che il bacino di reclutamento dell’ECC sia rappresentato dalle classi più vulnerabili e al centro dei cambiamenti socio-politici dell’ultimo decennio ovvero giovani e operai della ricca regione mineraria del Limpopo, al confine con lo Zimbabwe. Infatti, la tendenza della classe dirigente a essere esposta a posizioni più estreme e radicali e un’ipotetica consacrazione di una figura radicale come Malema (che lotta per l’espropriazione delle terre e la redistribuzione della ricchezza e la nazionalizzazione delle miniere) rappresenterebbe un serio pericolo per la politica interna perché potrebbe ingaggiare una lotta, anche dai toni violenti, a tempo indeterminato per l’affermazione dei diritti delle classi più deboli e marginalizzate, inasprendo il classismo e il settarismo sudafricano. A livello internazionale, invece, potrebbe verificarsi una progressiva radicalizzazione della politica estera su modello del nazionalismo panafricanista antioccidentale di Robert Mugabe, Presidente dello Zimbabwe, dal quale ottiene appoggio e sostegno da lunghi anni.

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