Tunisia: le conseguenze politiche della morte di Mohammad Brahmi
Medio Oriente e Nord Africa

Tunisia: le conseguenze politiche della morte di Mohammad Brahmi

Di Gianluca Gerli
30.09.2013

Negli scorsi giorni, il governo tunisino – guidato dal partito d’ispirazione islamica Ennahda – ha accettato di presentare le proprie dimissioni e avviare una serie di colloqui con l’opposizione volti alla formazione di un esecutivo d’unità nazionale. Una decisione scaturita al termine di lunghi mesi di proteste, scatenate in particolare dall’omicidio di Mohammad Brahmi, membro dell’opposizione ucciso il 25 luglio scorso in circostanze molto simili a quelle dell’assassinio di Chokri Belaid. Quest’ultimo, leader di una delle principali formazioni politiche dell’opposizione, era stato raggiunto davanti casa da diversi colpi di pistola il 6 febbraio scorso. Sia la sua morte che quella di Brahmi è stata connessa dal governo ad Ansar al-Sharia, il principale dei gruppi salafiti attivi in Tunisia. Secondo il Ministro dell’Interno Lotfi Ben Jeddou, ad uccidere i due uomini sarebbe stata addirittura la stessa arma.

In ambo i casi, tuttavia, l’esecutivo guidato da Ennahda – principale partito di governo – non sembra essere riuscito a scaricare interamente la colpa su Ansar al-Sharia, già responsabile nel settembre del 2012 di un vasto attacco all’Ambasciata statunitense a Tunisi a seguito delle proteste per la pubblicazione di un film sul profeta Maometto. Secondo l’opposizione, infatti, i salafiti avrebbero potuto agire indisturbati solo grazie all’accondiscendenza dell’esecutivo. I due omicidi hanno inoltre contribuito a minare fortemente il consenso popolare attorno a Ennahda, il quale continua a non essere percepito in patria come fattore di stabilità e di lotta al terrorismo.

Dopo l’assassinio di Belaid, avevano avuto luogo una serie di manifestazioni che hanno portato ad un rimpasto di governo e alla nomina di Ali Larayedh, allora Ministro dell’Interno, a capo dell’esecutivo. Tale rimpasto, tuttavia, aveva di fatto frustrato le aspettative dell’opposizione che chiedeva un netto cambio di rotta. La morte di Brahmi ha avuto invece l’effetto di restituire vigore alle proteste, lentamente sopitesi dopo la morte di Belaid, riportando molta gente a manifestare in piazza per chiedere lo scioglimento dell’Assemblea Costituente e la creazione di un governo tecnico che traghetti il Paese verso nuove elezioni.

Questa situazione ormai prolungata d’incertezza politica ha condotto all’istaurazione di una mediazione fra le forze politiche del Paese promossa dall’UGTT, il principale sindacato tunisino, e dall’UTICA, l’associazione delle imprese locali. Il tentativo è stato accolto con favore dal leader di Ennahda, Rachid Ghannouchi, che, dopo aver auspicato una riconciliazione nazionale, ha infine aperto la strada a un esecutivo tecnico che possa traghettare il Paese verso le prossime elezioni.

I toni concilianti sono sempre stati, a ben vedere, una costante utilizzata da Ghannouchi da quando Ennahda si trova al governo. Quest’approccio ha consentito al leader del primo partito del Paese di rassicurare occasionalmente l’opposizione da un lato, e di mantenere opache relazioni con le frange islamista più estreme dall’altro. Ma l’omicidio di Brahmi e le rinnovate proteste hanno costretto il governo ad annoverare Ansar al-Sharia fra i gruppi terroristici, cercando di utilizzare l’organizzazione come capro espiatorio. Tale decisione ha avuto sicuramente l’effetto di favorire il dialogo fra le forze politiche. Ciò che tuttavia occorrerà verificare nei prossimi tempi è se Ennahda avrà l’effettiva capacità politica di opporsi ad un’importante fetta militante del proprio partito d’ispirazione chiaramente islamista.

Ma le difficoltà maggiori in questo momento sono vissute dalle opposizioni, la cui richiesta di formazione di un governo tecnico potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio. Una fase politica più stabile e tranquilla potrebbe infatti favorire nuovamente Ennahda, la quale, pur non godendo di un ampio consenso, dispone di un’organizzazione formidabile di associazioni e strutture aggregative in grado di pesare non poco in fase di competizione elettorale.

Al contrario, se dovessero continuare omicidi o intimidazione politiche, esiste la concreta possibilità di un aumento della conflittualità sociale. Anche se difficile è la riproposizione di uno scenario di tipo egiziano, la situazione non è per questo da sottovalutare: è certamente vero che in Tunisia non esiste un apparato militare paragonabile a quello del Cairo (prova ne è la relativa velocità e facilità con cui crollò il regime di Ben Ali), ma l’assenza di importanti forze di mediazione potrebbe pesare in una situazione di accresciuta tensione. Per il momento, la realtà appare ben lontana da tali ipotesi, e la mediazione fra le parti politiche appare ancora percorribile e perciò auspicabile.

Difficile è però dire a che cosa questa mediazione possa portare, data l’ambiguità con cui continua a muoversi Ennahda: le elezioni in Tunisia dovrebbero tenersi a dicembre, ma nulla può impedire che vengano posticipate come già è stato fatto più volte. In questo scenario, Ennahda appare ancora come l’unica forza politica organizzata in grado di condurre una campagna elettorale, nella quale le forze dell’opposizione – già private di due esponenti di primo piano – dovranno necessariamente dimostrare un’inedita coesione e capacità di raccogliere consensi.

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