Shinzo Abe e le sfide del nuovo Giappone
Asia e Pacifico

Shinzo Abe e le sfide del nuovo Giappone

Di Riccardo Mario Cucciolla
09.04.2013

In questi primi mesi di governo Abe, il Giappone si sta mostrando pronto ad affrontare le prossime sfide globali. Dopo l’incerta parentesi progressista (2009-2012), in cui si sono succeduti tre brevi governi guidati dai democratici del DPJ, i conservatori del LDP sono tornati al governo con l’ambizione di riaffermare il ruolo internazionale del Giappone e riportare il Paese alla stregua di una grande potenza, rilevante nello scacchiere asiatico e globale. Gli scenari principali sui quali si stanno concentrando le sfide del Giappone di Abe sono, sostanzialmente, cinque:

I - Espansione economica: il premier Shinzo Abe ha promesso di tirar fuori il Giappone dalla persistente crisi deflattiva che ha caratterizzato la sostanziale stagnazione produttiva dell’ultimo decennio e di far ripartire l’economia nazionale. Per questo, il governo di Tokyo ha lanciato un programma economico di medio periodo finalizzato a una sostanziale crescita media annua del 3% per il prossimo quinquennio. L’attuale piano economico conservatore è decisamente diverso rispetto alla ricetta liberista promossa dal predecessore Koizumi nel periodo 2001-2006, in quanto questa era mirata a privatizzazioni, deregolamentazioni e detassazioni. Abe, invece, punta a far ripartire l’economia giapponese promuovendo una decisiva riforma del lavoro e del welfare, l’espansione della spesa pubblica (specie per la realizzazione d’infrastrutture e opere pubbliche) e, soprattutto, procedere nella lotta alla deflazione attraverso l’incremento degli investimenti e una politica monetaria espansiva.

La linea del nuovo governatore della Banca centrale del Giappone, Haruhiko Kuroda, ha come obiettivo una soglia del tasso di inflazione del 2% e prevede, entro il 2014, l’espansione della base monetaria (da 138 a 270 bilioni di yen), dei bond pubblici detenuti (da 89 a 190 miliardi di yen) e degli Etf (da 1,5 a 3,5 miliardi di yen) in suo possesso. Una tale immissione monetaria comporterebbe inevitabilmente delle svalutazioni competitive dello yen che potrebbero rilanciare le esportazioni giapponesi, rispondendo alle svalutazioni dei suoi più diretti concorrenti (nello specifico, lo yuan cinese e il won sudcoreano). Tale politica era già stata promossa dal precedente governo democratico ed è stata ulteriormente favorita da Abe: basti pensare che da luglio 2012, il valore dello yen è sceso di circa il 20%.

Inoltre, il nuovo governo giapponese sta puntando a sfruttare le incredibili opportunità commerciali scaturite con lo stabilimento di accordi di libero scambio. Il 15 marzo Abe ha dichiarato di voler partecipare alla Trans-Pacific Partnership (Tpp) - un’iniziativa trans-pacifica promossa dagli Stati Uniti a cui aderiscono (per il momento) Australia, Brunei, Cile, Canada, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam, e finalizzata alla creazione di una zona di libero scambio - ponendo eventuali riserve a protezione dei settori agricoli e ittici del Paese. Per di più, proseguono i negoziati per un importantissimo accordo di libero scambio a tre tra Giappone, Cina e Corea del Sud.

Il 25 marzo 2013, Giappone e Ue - che insieme rappresentano il 30% dell’economia mondiale e il 40% del commercio mondiale - hanno avviato i negoziati per costituire una zona libero scambio che potrebbe comportare un incremento potenziale degli scambi commerciali e degli investimenti del 71%. Questa soluzione offrirebbe al Giappone un mercato aperto di circa 500 milioni di clienti nel quale riversare la produzione automobilistica, high-tech ed investimenti; e potrebbe creare fino a 400.000 posti di lavoro e un incremento dello 0,8% di crescita di PIL dell’economia europea. Rimangono, comunque, dei forti timori per il settore automobilistico europeo (che potrebbe perdere 35-73.000 posti di lavoro nel settore) e per il difficile aggiramento delle “barriere non tariffarie” giapponesi.

II - Approvvigionamento energetico: il Giappone sta promuovendo importanti piani di investimenti nei confronti dei principali produttori di idrocarburi in Medio Oriente e nel pacifico meridionale puntando, soprattutto, allo sviluppo della tecnologia LNG: nel 2012 il Giappone ha incrementato dell’11,4% le importazioni di gas naturale liquefatto (LNG), arrivando a rappresentare il 37,3% della domanda mondiale (108,87 bcm). A tal proposito, negli ultimi mesi sono stati conclusi importanti accordi commerciali con importanti produttori come Brunei, Malesia, Indonesia, Qatar, Iran e Russia. Inoltre, il governo giapponese ha finanziato lo sviluppo di una sofisticata tecnologia capace di estrarre gas naturale dai giacimenti di idrato di metano (clatrato) presenti nei fondali oceanici. Le riserve di metano - estraibili dal clatrato della Fossa di Nankai - sono state stimate a 1,1 Tcm (trilioni di metri cubi) e potrebbero soddisfare la domanda domestica di gas naturale per circa 11 anni. Non da meno, Abe ha riconfermato il nucleare civile essendo, per ora, l’unica fonte energetica prodotta domesticamente. Il Giappone, che ha recentemente subito la catastrofe ecologica di Fukushima, avverte la necessità di non dipendere del tutto dalle importazioni di fonti energetiche dall’estero e boccia, con un alto grado di scetticismo, la linea che era stata promossa dai democratici per un’eventuale “rivoluzione verde” delle fonti rinnovabili.

III - Rivalutazione della memoria storica Da un altro verso si sta ritornando a una retorica nazionalista/revisionista che rimembra il ruolo imperiale e indipendente del Giappone, rivalutando la memoria storica del Paese durante la seconda guerra mondiale: sono esemplari le continue visite dei vertici dello Stato al santuario Yasukuni - un monumento eretto in onore dei 2,5 milioni di caduti tra cui 14 super criminali di guerra - e le dichiarazioni revisioniste sulle “donne di conforto” e sullo Stupro di Nanchino. Considerando un tendenziale sentimento di ostilità dei giapponesi nei confronti della Cina, questo tipo di manifestazioni retoriche sono funzionali soprattutto sul piano interno, in quanto risultano argomenti emotivi durante la campagna elettorale e rafforzano il consenso dell’ala più radicale, conservatrice e revisionista del LDP e del JRP (Japan Restoration Party). Al contempo, finiscono per attirare le proteste diplomatiche del governo cinese e sud coreano, memori dell’occupazione e delle atrocità commesse dall’esercito giapponese durante la seconda guerra mondiale. Abe riconosce il rischio di un peggioramento dei rapporti con i partner asiatici e per questo smorza tali toni in sedi internazionali dove ha dichiarato, in varie occasioni, che Cina e Corea del Sud rimangono dei partner commerciali troppo importanti per poterne compromettere le relazioni economiche. Il governo di Washington, a sua volta, preferisce non essere trascinato in questi “conflitti emotivi” e getta acqua sul fuoco spingendo due importanti alleati come Tokyo e Seoul al dialogo e a una maggiore cooperazione, soprattutto in ambito di sicurezza e difesa, anche alla luce delle minacce comuni, come ad esempio il programma nucleare di Pyongyang.

IV - Riaffermazione di un ruolo internazionale: la retorica ultranazionalista di Abe manifesta la decisa volontà di riaffermare l’autorità giapponese su una serie di dispute territoriali internazionali. Da subito, il nuovo governo conservatore ha ribadito la sovranità di Tokyo sulle isole Senkaku (rivendicate da Cina e Taiwan), definendo la questione come “non negoziabile”. Ciò ha rafforzato la posizione interna del premier, divenuto il simbolo di un nuovo “orgoglioso Giappone”, ma ha riacceso le tensioni con Pechino e Taipei. Simili rivendicazioni giapponesi continuano a essere mosse contro Seoul per il controllo delle Liancourt Rocks (una novantina di scogli conosciuti come “Takeshima” in giapponese e “Dokdo” in coreano), e Pechino sullo status di Okinotorishima. Per queste dispute sono seguite diverse tensioni tra gli Stati contendenti che, ufficialmente, non hanno escluso una possibile risoluzione militare. Lo stesso Abe ha ribadito il diritto sovrano del Giappone su tali isole e ha dichiarato di potersi ispirare alla Thatcher che, nel corso della crisi delle Falkland nel 1982, ricorse legittimamente all’uso della forza contro un’aggressione esterna. Per quanto riguarda le Senkaku, la questione tra Cina e Giappone assume una dimensione globale in quanto coinvolge direttamente anche gli USA: nel settembre 2012, durante una visita ufficiale a Pechino, Leon Panetta - allora Segretario alla Difesa degli Stati Uniti - ha avvertito l’omologo cinese - Liang Guanglie - che le isole Senkaku erano considerate parte del territorio coperto dal Japan-U.S. Security Treaty. In questo modo Washington, che ufficialmente non prende parte nella controversia territoriale, ha attualmente riconosciuto le isole come parte del territorio nazionale giapponese, confermando il proprio impegno alla difesa dell’arcipelago nipponico e a contenere le propensioni espansionistiche di Pechino.

Più complessa per il governo di Tokyo è la questione delle isole Kurili - de facto annesse dalla Federazione Russa - che continua a dividere i due Paesi, posticipando la formalizzazione di un trattato di pace atteso dal 1945. Una soluzione favorevole al Giappone nel breve periodo sembra, per ora escludibile, anche se continua il dialogo tra Tokyo e Mosca per una maggiore cooperazione commerciale che coinvolga, soprattutto, le depresse regioni dell’Estremo Oriente russo.

Queste dispute territoriali, che per un verso risultano un sintomo irredentista di un rinato orgoglio nazionale giapponese, nascondono degli interessi economici in quanto contrappongono le parti contendenti sul controllo delle risorse ittiche e naturali, sulle possibili riserve di idrocarburi nel sottosuolo, sul controllo delle rotte commerciali e, per quanto riguarda l’isolotto di Ullelungdo (appartenente alle Takeshima) , sulla costruzione di una base navale da parte di Seoul entro il 2015. Probabilmente, nessuna di queste controversie verrà risolta nel breve periodo a favore del Giappone, ma Abe non può rinunciare a rivendicare nessuna di queste realtà per non creare dei pericolosi precedenti.

Tokyo sta cercando di riaffermare un proprio ruolo internazionale anche in seno alle organizzazioni internazionali: pur essendo uno dei maggiori finanziatori dell’ONU, il Giappone - che ha partecipato per ben dieci volte al Consiglio di Sicurezza in qualità di membro non permanente - vorrebbe diventarne membro permanente, con relativo diritto di veto. A tal proposito, aderisce al gruppo G4 con India, Germania e Brasile e cerca di affermare tale posizione in seno al G8 e al G20. Abe si sta anche dimostrando un importante interlocutore delle realtà regionali: è membro rilevante dell’APEC e sta sviluppando importanti relazioni con l’ASEAN, in qualità di membro del gruppo “ASEAN più tre” dell’East Asia Summit.

V - Superamento dei limiti costituzionali sulla Jeitai (Forze di Autodifesa) e potenziamento delle capacità militari: questo scenario va letto alla luce della politica nazionalista/revisionista di Abe, che abbandona il tradizionale pacifismo giapponese. Secondo l’Articolo 9 della Costituzione, il Giappone rinuncia alla guerra come diritto sovrano della nazione e, per questo, le Forze di Autodifesa, pur possedendo equipaggiamenti all’avanguardia e capacità elevate, sono sottoposte a rigide restrizioni giuridiche per quel che concerne l’impiego operativo. La cosiddetta “dottrina Yoshida”, che nel corso della Guerra Fredda aveva subappaltato agli Stati Uniti la difesa nazionale, permetteva la sola creazione di una Forza di Autodifesa (Jeitai) che non poteva intervenire in alcun contesto offensivo.

In ambito internazionale il Giappone, non potendo contribuire materialmente alle missioni di peacekeeping, poteva ottemperare soprattutto finanziando tali operazioni. Adesso Abe vorrebbe ribaltare questa situazione e ripristinare il diritto del Giappone ad avere Forze Armate capaci di intervenire anche al di fuori del contesto nazionale. Una prima svolta c’è stata nel 2004 sotto Koizumi, quando vennero inviate in Iraq delle truppe di supporto non militare: per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, il Giappone schierava un contingente autonomo al di fuori di un mandato delle Nazioni Unite.

Il Giappone ha comunque già mostrato capacità e responsabilità militari nelle missioni internazionali volte alla lotta al terrorismo e alla pirateria: tra queste si ricordano le operazioni navali di supporto logistico alla Missione Enduring Freedom, condotte da quattro navi della Kaijō Jieitai (la Marina delle Forze di Autodifesa) nell’oceano Indiano fino al 2008; e l’attuale missione antipirateria a largo delle coste somale, dove il governo di Tokyo mantiene due cacciatorpediniere per garantire la sicurezza delle navi commerciali giapponesi (e non), stabilendo a Gibuti nel 2011 la prima base operativa extraterritoriale del Paese.

Con la recente introduzione del concetto di “capacità di difesa dinamica” si è ulteriormente aggirato tale vincolo costituzionale, permettendo una maggiore flessibilità di intervento delle forze militari. Il governo di Tokyo avrebbe, inoltre, proposto di emendare tale vincolo costituzionale ammettendo la possibilità di “autodifesa collettiva” - che permetterebbe alle Forze giapponesi di intervenire a fianco degli alleati americani se attaccati - e di ripristinare tali limiti di sovranità, trasformando le Forze di Autodifesa in Esercito Nazionale (Kokubo Gun).

Inoltre, per la prima volta dopo 11 anni, il governo Abe ha voluto aumentare le spese militari andando oltre la soglia storica dell’1% del PIL, portando avanti una vera e propria politica di potenziamento militare al fine di affermare un Giappone capace di tener testa alle maggiori minacce nello scenario asiatico, come Pechino e Pyongyang. Questo rafforzamento qualitativo e quantitativo, che il governo di Tokyo sta attuando dai primi anni 2000 in ambito aereo e marittimo, si sta sviluppando con la costruzione di due nuove portaelicotteri “classe 22DDH” - il completamento della capoclasse è previsto per il 2015 - che potrebbero accomodare, in teoria, anche i nuovi caccia multiruolo F-35B, una nuova flotta di sommergibili (che nel 2010 è passata da 16 a 22 unità) e la recente modernizzazione degli armamenti missilistici e terrestri.

Questo potenziamento delle forze armate ha il placet degli americani, che oltre ad essere i principali fornitori di armamenti, preferirebbero una più equa redistribuzione dei compiti tramite l’affermazione di un alleato forte nello scenario asiatico, capace di bilanciare l’ascesa cinese e le minacce nordcoreane. Le difficili relazioni tra Tokyo e Pyongyang - già divise sulla questione dei rapimenti di cittadini giapponesi - stanno diventando sempre più ostili per via del programma nucleare nordcoreano. Quest’ultimo minaccia direttamente il Giappone e le basi americane presenti sull’arcipelago nipponico (obiettivi sensibili sono principalmente le basi americane a Misawa, Yokosuka e Okinawa). Tali intimidazioni finiscono per legittimare ancor più questa politica di rafforzamento militare di Tokyo che potrebbe, inoltre, spingersi ben oltre i mezzi convenzionali: l’ex governatore di Tokyo - Shintaro Ishihara, giunto terzo con il suo JRP (Japan Restoration party) alle ultime elezioni - ha spesso sostenuto la necessità nazionale di dotarsi di armamenti nucleari. Ad ogni modo, una simile opzione sembra escludibile nel breve periodo.

Tokyo può contenere l’espansione cinese? Da una parte il Giappone cerca di affermarsi come partner affidabile per la costituzione di un solido blocco “occidentale” (insieme a USA e Corea del Sud) nello scenario asiatico contro la minaccia nucleare di Pyongyang e l’espansionismo navale cinese; dall’altra vuole ritagliarsi dei spazi dove rilanciare i propri interessi strategici nazionali come commercio e approvvigionamento energetico. Per questo non è da escludere che in un prossimo futuro Abe - pur riaffermando la solida partnership con gli Stati Uniti nel costituire un forte elemento di containment all’espansionismo cinese e al programma nucleare nordcoreano - possa decidere di riscattare un ruolo autonomo di “alleato alla pari”, piuttosto che di “alleato condizionato” e di riaffermare l’influenza giapponese sull’Estremo Oriente e sul Pacifico, riequilibrando le forze in gioco.

Un Giappone forte potrebbe, così, assumere un ruolo simile a quello che riveste Israele in Medio Oriente e risultare un solido (e autonomo) avamposto filo-occidentale recuperando, inoltre, quegli importanti legami economici e politici con i Paesi del Pacifico occidentale che sono rimasti diffidenti nei confronti dell’Impero del Sol Levante dopo la seconda guerra mondiale.

Nelle ultime settimane, i viceministri di 10 Stati membri dell’ASEAN hanno incontrato i vertici giapponesi per chiedere un maggiore coinvolgimento nipponico, non solo economico ma anche in materia di sicurezza e difesa, nella stabilizzazione regionale e per controbilanciare l’emergente potenza cinese. Paesi “ex nemici” come Filippine e Vietnam temono, ora, il risveglio del dragone e chiedono un maggior coinvolgimento del Giappone come fornitore di tecnologia militare e come mediatore della disputa per le isole Spratly, che divide Cina, Taiwan, Filippine, Vietnam, Malesia, Brunei e Indonesia. A tal proposito, il governo di Tokyo ha donato alle Filippine delle motovedette dal valore di circa 10 milioni di dollari ciascuna per monitorare l’attività marittima della Cina nelle acque contese.

Un primo passo nell’affermazione di un Giappone forte, influente e capace di confrontarsi con le realtà emergenti, sarebbe quello di rivedere l’assetto costituzionale del 1947, semplificando la procedura di emendamento che necessita di una maggioranza dei due terzi del parlamento, la conferma tramite referendum popolare e la promulgazione da parte dell’imperatore. In questo modo, sarebbe possibile ripristinare un “orgoglioso Giappone” e ottenere una costituzione indipendente che abbandoni quella natura pacifista imposta dagli americani dal 1945 eliminando, così, quelle restrizioni che impediscono oggi a Tokyo di concorrere attivamente alla sicurezza regionale e internazionale, oltre che alla propria.

Al momento, il piano di Abe di conferire al Giappone un nuovo peso strategico internazionale incontra due tipi di difficoltà: da una parte, l’amministrazione di Tokyo dovrebbe rinunciare a quella retorica nazionalista che crea pregiudizi e - trascendendo nella memoria storica di Paese imperialista - rischia spesso di ostacolare il dialogo con gli interlocutori asiatici; dall’altra si deve confrontare con dei vincoli costituzionali difficilmente aggirabili e un’opposizione interna ancora effettiva nella Camera Alta. Questo ramo del Parlamento è ancora a maggioranza democratica, ma potrebbe cambiare la propria natura nel corso delle elezioni previste per luglio 2013 e conferire ad Abe quella maggioranza determinante per provvedere a una riforma costituzionale dell’ordinamento giapponese.

Articoli simili