Elezioni in Tunisia, il voto premia gli outsider e punisce il sistema dei partiti
Medio Oriente e Nord Africa

Elezioni in Tunisia, il voto premia gli outsider e punisce il sistema dei partiti

Di Simone Acquaviva
19.09.2019

Domenica 15 settembre, per la seconda volta dalla rivoluzione dei Gelsomini, il popolo tunisino si è recato alle urne per eleggere il proprio Presidente tra 26 candidati, incluse due donne. Nonostante l’incremento degli aventi diritto registratesi per il voto, che giustifica come il dato sull’affluenza alla urne non si discosti di molto da quello della scorsa tornata presidenziale in termini assoluti, a livello percentuale è possibile riscontrare un calo di quasi 1/5 dei voti espressi (45% contro il 64% di cinque anni fa). L’aumento della disaffezione dell’elettorato si è riflessa anche nell’esito del voto. Infatti, i due candidati che hanno ricevuto il maggior numero di suffragi sono il costituzionalista Kaïs Saïed e il magnate dei media Nabil Karoui, vale a dire due personalità non direttamente riconducibili ad alcun partito. Al contrario, tutti i candidati alla presidenza affiliati a formazioni politiche sono riusciti a raccogliere un numero di voti nettamente inferiore alle performance dei loro partiti di riferimento nelle precedenti tornate elettorali. Dunque, il primo turno delle elezioni presidenziali senza dubbio porta in dote una forte domanda di cambiamento della classe politica che ha guidato il Paese dal 2011.

Le radici di questa volontà di cambiamento affondano nelle molteplici difficoltà incontrate dagli ultimi governi nel realizzare quegli obiettivi di riscatto sociale, miglioramento delle condizioni di vita e ripresa economica che erano stati al centro della rivolta del 2011. A sua volta, questa incapacità della classe dirigente tunisina è strettamente legata ai travagli del percorso politico di transizione verso la democrazia.

Infatti, questo percorso è stato tutt’altro che lineare, ed ha rischiato a più riprese di portare ad uno scontro tra visioni politiche islamiste e laiche che non solo ne avrebbe compromesso l’esito, ma che avrebbe potuto anche favorire una precoce sclerotizzazione dei giovani meccanismi democratici e una diffusione della violenza politica su larga scala.

Tali criticità sono state essenzialmente superate grazie ad un compromesso tra le principali forze politiche in campo, in particolare tra la coalizione laica Nidaa Tounes ed il partito islamista Ennahda, ovvero le formazioni con la maggior rappresentanza parlamentare. È tramite il ricorso a una gestione non solitaria della cosa pubblica (2011-2014) e a governi sostenuti da grandi coalizioni Nidaa - Ennahda (2014-2019), che la Tunisia è riuscita a superare alcuni passaggi chiave come l’approvazione della Costituzione, le prime elezioni presidenziali (vinte dal leader di Nidaa Tounes, Beji Caid Essebsi), le legislative e le municipali.

Questo consenso nazionale ha avuto la preziosa funzione di garantire continuità istituzionale e una stabilità minima al Paese, oltre a tenere sotto controllo la polarizzazione e l’estremizzazione del dibattito politico. Al tempo stesso, però, proprio questa strategia del consenso si è rivelata un fattore di freno per l’azione di governo. Infatti, le necessarie riforme economiche ed istituzionali sono state rallentate, quando non accantonate, dai frequenti veti incrociati e più in generale dall’elevatissima litigiosità della coalizione di governo.

In questo contesto, il Presidente Essebsi ha svolto un delicato e necessario compito di mediazione tra le forze in campo, ergendosi a garante dell’accordo di governo (il Patto di Cartagine e le sue successive revisioni) e garantendo almeno un livello minimo di coesione all’esecutivo. Dal punto di vista sia materiale che simbolico, dunque, la morte di Essebsi, avvenuta lo scorso 25 luglio, segna la fine di questa peculiare fase della politica tunisina e rende particolarmente sensibile la scelta del futuro Capo dello Stato.

Va sottolineato che nell’assetto tunisino il Presidente non è posto a guida dell’esecutivo, ma ha comunque importantissimi poteri in materia di difesa e politica estera, oltre che la possibilità di bloccare alcuni provvedimenti legislativi. Il modo con il quale il Presidente può interpretare il proprio ruolo e il perimetro del suo mandato costituzionale, a maggior ragione in assenza di un meccanismo di riequilibrio istituzionale come la Corte Costituzionale, fa sì che i poteri del primo cittadino tunisino possano rivelarsi più o meno elastici a seconda della sensibilità politica e istituzionale del vincitore. Sebbene quindi saranno le elezioni parlamentari del prossimo 6 ottobre a decidere la formazione del prossimo esecutivo del Paese, la tornata del 15 settembre ha assunto una rilevanza non secondaria anche per valutare i possibili orientamenti dell’elettorato nelle legislative.

Nel complesso, l’esito delle presidenziali conferma quanto i sentimenti dominanti dei cittadini tunisini fossero da un lato la disillusione verso un sistema istituzionale incapace di offrire adeguate risposte, e dall’altro la voglia di cambiamento. A farne le spese sono stati diversi candidati dell’establishment, rimasti clamorosamente fuori dal ballottaggio.

Candidato alla guida del Paese, il premier uscente Chahed aveva tentato per primo di ricorrere alla battaglia anti corruzione, lanciando nel 2017 una campagna ribattezzata dalla stampa “mani pulite”, finita per rivelarsi come un attacco al rivale politico Hafedh Essebsi, figlio del Presidente e leader di Nidaa, senza portare alcun risultato tangibile nella lotta ad una delle piaghe endemiche del Paese. Chahed quindi aveva lanciato una propria formazione politica, Tahya Tounes, mossa che evidentemente non ha portato i frutti sperati come testimonia il magro risultato ottenuto (7,4% dei consensi, e quinto posto).

Altrettanto deludente (10,7% dei consensi) il risultato del ministro della difesa Abdelkarim Zbidi, anche egli laico, indipendente ma  supportato, almeno ufficialmente, da Nidaa Tounes. Zbidi aveva promesso il superamento dell’attuale sistema semi-presidenziale, annunciando che avrebbe indetto un referendum costituzionale per attribuire maggiori potere al Capo di Stato.

Duramente sconfitto nella tornata elettorale è anche il candidato di Ennahda, Abd al-Fattah Mourou. Il partito islamista presentava per la prima volta un proprio esponente alla tornata presidenziale, dopo avervi rinunciato nel 2014 in ossequio alla citata strategia del consenso.  Già all’indomani della rivoluzione del 2011, Ennahda aveva rinunciato all’aspirazione di occupare in solitaria le istituzioni, con il timore che all’affermazione di un partito legato alla Fratellanza Musulmana potesse seguire una reazione dell’establishment politico-militare. Da allora Ennahda è andata incontro ad un graduale processo di allontanamento dai dettati dell’islamismo politico, fino all’annuncio del leader Ghannouchi, datato 2016, della trasformazione dell’organizzazione in un partito musulmano-democratico. Tale strategia ha lasciato senza rappresentanza politica la frangia più estrema dell’elettorato del Partito, d’altro lato aprendo nuovi spazi al centro, tanto che il risultato delle municipali lasciava ben sperare in un esito positivo della candidatura di Mourou. Con l’aspettativa di poter capitalizzare il consenso di un elettorato considerato estremamente fedele, come dimostrato dall’esito degli ultimi appuntamenti elettorali nei quali Ennahda aveva ottenuto stabilmente attorno al 30% dei suffragi, il risultato ottenuto da Mourou (12,9% dei voti) appare estremamente al di sotto delle aspettative. E’ possibile che Ennahda abbia pagato l’appoggio alla compagine governativa, così come sia stata indebolita dalla non piena condivisione della strategia di Ghannouchi da parte di fazioni interne al partito, convinte che l’abbandono dell’islamismo politico non rappresentasse la strada da seguire.

Come già accennato, al ballottaggio si sfideranno quindi l’imprenditore nel settore delle telecomunicazioni Nabil Karoui, che ha ottenuto il 15,6% dei consensi, ed il giurista conservatore Kaïs Saïed, forte del 18,4% dei voti, entrambi proveniente al di fuori dell’agone parlamentare e capaci di costruire la propria piattaforma politica sul  montante sentimento anti-partitico.

Un possibile exploit di Karoui era stato preventivato nelle scorse settimane, ma l’affermazione del “Berlusconi tunisino” era stata resa incerta dall’accusa di frode fiscale ed il susseguente arresto. Karoui ha quindi condotto il tratto finale della campagna elettorale dal carcere, lamentando una persecuzione da parte del vecchio establishment tunisino. Nonostante l’apparente lontananza dalla classe dirigente, Karoui è stato tra i fondatori di Nidaa Tounes fino al 2017, quando ha abbandonato il partito e ha condotto campagne filantropiche, facendone perno principale della propria campagna elettorale. Malgrado la  separazione con il partito, Karoui ha visto l’appoggio di buona parte di Nidaa Tounes, tanto da risultarne, anche sull’onda della dirompente frammentazione della compagine parlamentare di Nidaa, il candidato de facto.

Il vero vincitore della prima tornata presidenziale è però Kaïs Saïed. Il costituzionalista conservatore, pur in assenza di una macchina elettorale di rilievo (ha ottenuto la maggiore visibilità soltanto dal dibattito televisivo tra i candidati), è riuscito comunque a catalizzare un buon numero di consensi. Saïed ha fatto sue tematiche divisive quale il supporto alla pena di morte e l’ostilità alle parità di genere, criticando le interferenze internazionali alla politica tunisina e descrivendo la promozione dell’omosessualità come complotto straniero. Posizionato su idee politiche simili a quelle di Ennahda, ma potendo contare su un genuino elemento di novità, il giurista ha attirato buona parte dei delusi del partito islamista e su di lui potrebbe convogliare il consenso di Mourou in vista del ballottaggio.

In attesa dei risultati della tornata parlamentare e del ballottaggio, è infine necessario analizzare quali potrebbero essere gli effetti del voto di domenica 15 sul panorama politico tunisino_._

Sebbene apparentemente rivoluzionari, i risultati del primo turno potrebbero confermare il perdurare dualismo tra forze laiche ed islamico-moderate, seppur in contesto di maggiore frammentazione e con nuovi protagonisti. Con tutta probabilità i due candidati proseguiranno il loro percorso elettorale come formalmente indipendenti dai partiti, ma una volta eletto il Capo dello Stato avrà il delicato compito di mediare le istanze provenienti da un Parlamento che si preannuncia maggiormente frammentato del precedente, nel tentativo di garantire un governo stabile ma allo stesso tempo non paralizzato da veti incrociati.

Di fatti, se dalle elezioni parlamentari del 2014 era emerso un chiaro blocco governativo, composto dagli oltre 2/3 dei seggi in mano all’anomala alleanza tra Nidaa Tounes e Ennahda, la prossima legislatura tunisina potrebbe vivere su equilibri decisamente più precari, per via dello sfaldamento, già in atto, del partito secolare Nidaa, e di un’eventuale perdita di consensi della formazione guidata da Ghannouchi. In un contesto del genere, anche l’apertura di una nuova stagione all’insegna di un compresso rinnovato e di ampio respiro, rischia di ricadere all’interno delle stesse dinamiche già attraversate nel quinquennio precedente, e di non avere al proprio interno le risorse necessarie per offrire quelle prospettive economiche e sociali che i cittadini tunisini richiedono a gran voce.

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