Geopolitical Weekly n. 299

Geopolitical Weekly n. 299

Di Giulia Guadagnoli e Giulia Lillo
05.07.2018

Algeria

Lo scorso 4 luglio, sono stati rimosse due figure di spicco del Ministero della Difesa algerino: il direttore del personale Mokdad Benziane ed il direttore finanziario Boudouar Budjemaa, entrambi vicini al Presidente Abdelaziz Bouteflika. Questi licenziamenti seguono altre recenti destituzioni, che hanno coinvolto prima il capo della Sicurezza Nazionale Abdelghani Hamel (24 giugno) ed il suo braccio destro Noureddine Berrachedi, capo della Sicurezza di Algeri, e poi il capo della Gendarmeria Nazionale Menad Nouba, anch’essi fedeli al Presidente.

Benché sia stata giustificata con lo scandalo nato dal sequestro, avvenuto il 29 maggio da parte della Marina Militare, di 701 chili di cocaina nel porto algerino di Orano, la rimozione di Hamel si inserisce nelle dinamiche che regolano il complesso equilibrio di poteri presente nel Paese. L’Algeria, infatti, si basa de facto su una triarchia, formata da una componente politica, il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) di Bouteflika; da una securitaria, il Dipartimento di sorveglianza e di sicurezza (DSS) che il Presidente è riuscito a depotenziare nel 2016; e da una componente militare espressa dalle Forze Armate. Le tensioni tra questi poli e tra le varie fazioni interne tende a emergere più chiaramente in frangenti, come quello attuale, in cui il Paese si avvicina a un nuovo appuntamento elettorale, previsto per il 2019, in cui è in gioco la successione a Bouteflika.

In particolare, questi attriti stanno coinvolgendo il cosiddetto clan di Oudja, che fa capo direttamente alla famiglia presidenziale e specificamente al fratello di Bouteflika, Said, e il clan di Annaba, guidato dal Capo di Stato Maggiore Ahmed Gaid Salah. Date le precarie condizioni di salute di Bouteflika, che lasciano incertezza su una sua eventuale quinta ricandidatura, per indebolire i rivali il clan di Annaba ha probabilmente sfruttato il successo riscontrato dalla Marina (ed il contingente fallimento della Sicurezza Nazionale) per costringere il Presidente a rimuovere da posizioni strategiche gli uomini a lui fedeli, sostituendoli con i propri. Non è un caso, infatti, che molti dei nuovi ufficiali promossi siano considerati vicini a Salah. In caso di ritiro ufficiale del Presidente dalle future elezioni, questa scalata del clan di Annaba tra le fila della leadership algerina potrebbe seriamente contrastare la linea di successione della famiglia Bouteflika e, di conseguenza, gettare un’ombra sulla stabilità politica del Paese.

Germania

Lo scorso 2 luglio, in tarda serata, è stato raggiunto un accordo tra la leader dell’Unione Cristiano-Democratica (CDU), la Cancelliera Angela Merkel, ed il Ministro dell’Interno Horst Seehofer, capo del partito bavarese Unione Cristiano-Sociale (CSU), alleati nella coalizione di Governo.

L’intesa giunge dopo una settimana di tensioni, nate dalla bocciatura, da parte della Cancelliera,  della rigida riforma delle politiche di accoglienza presentata da Seehofer, culminata con la minaccia di dimissioni da parte di quest’ultimo.

Angela Merkel e il Ministro dell’Interno hanno convenuto sulla creazione di “centri di transito” lungo il confine con l’Austria, finalizzati alla gestione e al contenimento dei flussi migratori. Tali centri, inoltre, potrebbero verosimilmente godere di uno status giuridico internazionale, in linea con le proposte contenute nel documento ufficiale del Consiglio Europeo del 28-29 giugno. Al loro interno, si prevede avvenga l’identificazione e l’eventuale espulsione dei migranti che abbiamo inoltrato la richiesta di asilo in altri Stati membri. In risposta all’iniziativa tedesca, Austria e Italia hanno già annunciato di prendere in considerazione eventuali contromisure per le rispettive frontiere, con il rischio che si verifichi un effetto domino che porti altri Paesi a sospendere gli accordi di Schengen.

Da un lato la Merkel, a fronte del rischio di una crisi di governo, ha dovuto accettare un fragile compromesso che potrebbe indebolire ulteriormente la propria leadership. Dall’altro, Seehofer ha potuto dimostrare il suo impegno nel difendere a livello nazionale gli interessi della Baviera, regione sempre più sensibile al tema immigrazione, in vista delle elezioni locali di ottobre. Nel Land, infatti, lo storico predominio della CSU, che governa continuativamente dal 1957 grazie alla maggioranza assoluta dei seggi, rischia di essere indebolito dalla rapida ascesa del partito nazionalista Alternativa per la Germania (AfD), che in Baviera si attesta attualmente intorno al 14%.

Mali

Tra il 29 giugno ed il primo luglio si sono verificati due attentati suicidi nelle città di Sèvarè e Gao che hanno provocato circa 20 morti e 30 feriti. Il primo attacco terroristico è stato sferrato contro il quartier generale della G5 Sahel Task Force, la missione militare multinazionale che vede il coinvolgimento di Mali, Burkina Faso, Niger, Mauritania e Ciad, nata nel 2017 principalmente per combattere la minaccia regionale costituita dai gruppi jihadisti e dai network criminali. Il secondo attacco era rivolto contro una pattuglia congiunta dell’Esercito maliano e dei militari francesi impegnati in “Barkhane”, l’operazione anti-terrorismo attiva in tutto il Sahel.

La rivendicazione degli attentati è arrivata da parte del GSIM (Gruppo per il Supporto dell’Islam e dei Musulmani), l’ombrello jihadista attivo nella regione del Sahel e in Africa Occidentale formato da al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), dal Fronte di Liberazione del Macina (FLM), da al-Mourabitun e da Ansar al-Din. I due attentati hanno contribuito a creare tensioni nel Paese, già alle prese con un difficile percorso di stabilizzazione dopo la guerra civile del 2013-2014 e prossimo alle elezioni presidenziali. Inoltre, i due attentati sono stati perpetrati solo alcuni giorni prima del 31° vertice dell’Unione Africana tenutosi a Nouakchott, in Mauritania, e della visita del Presidente francese Macron, con il chiaro intento di inviare un messaggio minatorio all’Eliseo. Infatti, Parigi continua ad essere uno degli attori più dinamici ed intraprendenti in tutto il Continente africano, soprattutto per quanto riguardo lo sforzo di stabilizzazione delle aree di crisi.

Repubblica Democratica del Congo

Secondo la testimonianza pubblicata da un team di esperti dei diritti umani delle Nazioni Unite, ribelli e truppe governative in Congo hanno commesso atrocità tra cui stupri di massa, cannibalismo e tortura. Il nuovo documento, che si basa su precedenti report di denuncia di crimini di guerra e violazioni dei diritti umani nella regione del Kasai, mette il luce gli attacchi commessi nel conflitto che sta affliggendo l’area centrale del Paese dalla fine del 2016 e che vede il coinvolgimento delle milizie antigovernative Kamuina Nsapu, delle milizie filogovernative Bana Mura e delle FARDC (Forces Armées de la République Démocratique du Congo). Lo scontro ha portato alla morte di circa cinquemila persone e allo sfollamento di circa un milione e mezzo di congolesi.

Il fattore scatenante della rivolta anti-governativa è stato il rifiuto, da parte del governatore della provincia e del Ministro degli interni di Kinshasa, di riconoscere ufficialmente il titolo di Kamwina Nsapu (leader tribale) all’erede designato dalla famiglia regnante Bajila Kasanja, Jean-Pierre Mpandi. Le rivolte successive da parte delle milizie etniche sono state violentemente represse dalle autorità, portando alla morte dello stesso Mpandi.

Il conflitto del Kasai, al pari di molti altri conflitti interni al Congo, ha fortissime radici etnico-settarie. Infatti, la milizia Kamuina Nsapu è composta principalmente da Luba, mentre la Bana Mura da Chokwe. Entrambe le milizie intendono rafforzare il proprio potere locale al fine di ottenere benefici economici da una più equa redistribuzione degli introiti dell’industria mineraria, che sono però gestiti dal Presidente Kabila in accordo con le multinazionali straniere. Il conflitto, inoltre, ha infiammato il Paese in un periodo di forte instabilità politica dovuta al rifiuto da parte del Presidente Kabila di lasciare il potere sebbene il suo mandato sia scaduto alla fine del 2016.

Nonostante la presenza di MONUSCO (Missione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione nella Repubblica Democratica del Congo), realistiche sono le ipotesi che violenze, abusi e repressioni possano continuare a perpetrarsi nei prossimi mesi, anche perché il costante clima di tensione costituisce uno strumento utile per il regime di Kabila per creare destabilizzazione e per poter rimandare ulteriormente le elezioni, inizialmente previste per dicembre 2016 e rinviate, ad ora,  al 23 dicembre 2018.

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