Geopolitical Weekly n. 285

Geopolitical Weekly n. 285

Di Giulio Nizzo
22.03.2018

Cina

Lo scorso 20 marzo si è conclusa l’annuale sessione dell’Assemblea Nazionale del Popolo, la più alta istituzione statale cinese, nonché unico organo legislativo della Repubblica Popolare. Durante il discorso di chiusura, il Presidente Xi Jinping ha rimarcato i successi del socialismo con caratteristiche cinesi e l’assoluta centralità del Partito Comunista nel sistema della Repubblica popolare, ribadendo, inoltre, l’importanza della coesione e dell’unità nazionale.

La riunione che si è appena conclusa, e che ha avuto inizio il 3 marzo scorso, è stata catalizzata principalmente sull’approvazione di un pacchetto di riforme costituzionali, tra cui la  rimozione del limite di due mandati per la carica presidenziale che, di fatto, permetterà a Xi Jinping, confermato alla presidenza della repubblica, di restare al potere a tempo indeterminato. Questa riforma è stata solo l’esempio più lampante dei cambiamenti approvati dall’Assemblea che andranno a rafforzare il ruolo di Xi all’interno del sistema. Tra queste, le nuove nomine approvate per incarichi di rilievo all’interno del Paese, che hanno visto la promozione a cariche apicali di uomini di fiducia dell’attuale Presidente. Yi Gang è stato nominato direttore della Banca Centrale Cinese, mentre, nell’ambito delle nomine governative, sono state ufficializzate quelle di Wei Fenghe a ministro della difesa e Wang Qishan a vice-presidente. Quest’ultimo, in precedenza, fu il leader del principale organo anti-corruzione del paese. Proprio la lotta alla corruzione è stato un tema di rilievo in quest’ultima assemblea, che ha visto la creazione della Commissione di Supervisione Nazionale, un nuovo organo anti-corruzione presieduto da Yang Xiaodu. Nonostante Li Keqiang, attuale Primo Minsitro, sia stato riconfermato per un secondo mandato, le nomine dei quattro nuovi vice-primi ministri, tra cui il braccio destro per la politica economica di Xi, Liu He, sembrano destinate a ridimensionare il margine di manovra del capo dell’esecutivo in materie di primaria importanza per il governo.

Russia

Vladimir Putin è stato confermato Presidente della Federazione Russa per la quarta volta, a seguito delle elezioni svoltesi il 18 marzo scorso, conquistando il 76,69% di voti: 13 punti percentuali in più rispetto al 2012. Per Putin si è trattato di una vittoria abbastanza scontata, che va a confermare il suo ruolo di assoluto predominio all’interno del panorama politico russo. Tuttavia, forze di opposizione interna, così come osservatori internazionali quali l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), hanno contestato la trasparenza e la legittimità con cui il processo elettorale si sarebbe svolto.

Il principale avversario di Putin, l’avvocato e attivista Alexei Navalny, è stato infatti ostracizzato sin dall’inizio della sua campagna elettorale, fra aggressioni personali e condanne per appropriazione indebita sulle quali aleggia lo spettro della motivazione politica. Queste ultime, lo hanno portato ad essere incarcerato per tre volte prima che, il 25 dicembre 2017, la commissione elettorale russa decretasse ufficialmente la sua ineleggibilità.

Pertanto, in virtù della totale assenza di avversari scomodi, la più grande preoccupazione per Putin era quella di assicurarsi un’alta affluenza alle urne, in modo da poter dare ulteriore legittimità ad un risultato già scontato. Molto è stato fatto per convincere i cittadini a recarsi alle urne, inclusi pullman organizzati e concorsi a premi. L’affluenza si è infine attestata al 67,53%, leggermente al di sopra rispetto al 2012 ma inferiore rispetto a quanto si era prospettato all’inizio della campagna elettorale.

In definitiva, queste elezioni indicano una linea di continuità dell’establishment di potere, senza nessun particolare stravolgimento. Come in passato, sono diverse le accuse di manipolazione e brogli elettorali da parte sia delle opposizioni che di osservatori internazionali. Resta da vedere come questa formula di potere ormai consolidata, che si appresta a reggere il Paese almeno fino al 2024, si approccerà alle sfide critiche che attendono la Russia nel futuro. Il carisma autoritario di Putin, la sua audace politica estera ed il forte senso di nazionalismo che essi sono capaci di infondere alla popolazione, per quanto riescano a parlare alla pancia del paese, dovranno, prima o poi, fare i conti con un malessere sociale crescente, dovuto ad un’economia a costante rischio stagnazione e ai rischi di una strategia di politica estera assertiva nei confronti dell’UE e degli USA.

Siria

Il 18 marzo scorso, la città di Afrin, enclave curda nel nord-ovest della Siria, è stata conquistata dall’Esercito turco con il supporto di forze ribelli siriane, concludendo l’Operazione Ramo d’Ulivo lanciata il 20 gennaio. Le Unità di Protezione Popolare (YPG), le milizie curde che difendevano la città, si erano pressoché del tutto ritirate, al fine di evitare una battaglia urbana che avrebbe avuto pesanti ripercussioni sia sul centro urbano che sui civili.

Al pari dell’Operazione Scudo dell’Eufrate (agosto 2016 - marzo 2017), anche questa offensiva turca aveva lo scopo di contrastare la presenza curda nel nord della Siria. Una zona autonoma curda in prossimità del confine con la Turchia è infatti vista come una minaccia da Ankara, sia in quanto potrebbe costituire una base arretrata per azioni di guerriglia del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), sia perché potrebbe incentivare le rivendicazioni autonomiste o indipendentiste dei curdi in Turchia.

Date le preoccupazioni di Ankara, è possibile che, dopo la presa di Afrin, la Turchia punti a proseguire le operazioni militari verso est, dove si trovano altri territori sotto controllo curdo. Tuttavia, sia nell’area di Manbij, a ovest dell’Eufrate, sia nel resto del nord-est della Siria, le forze curde sono affiancate da truppe statunitensi, la cui presenza finora ha funzionato da deterrente rispetto a un’eventuale offensiva di Ankara che, di fatto, si tradurrebbe nello scontro diretto tra due alleati NATO.

Ad ogni modo, i successi riportati ad Afrin potrebbero indurre la Turchia ad aumentare le pressioni diplomatiche su Washington al fine di trovare un accordo, perlomeno riguardo all’area di Manbij. Tuttavia, dal momento che il contrasto alla presenza curda rappresenta la massima priorità turca nel dossier siriano, qualora gli USA non offrissero garanzie o compromessi giudicati soddisfacenti da Ankara, non si può escludere che la Turchia si lanci in nuove azioni dimostrative, come peraltro già avvenuto lo scorso aprile con il bombardamento di infrastrutture militari curde a Derik, nella Siria nord-orientale, e nella vicina Sinjar in Iraq.

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