L’ombra del ritorno della pirateria nel Golfo di Aden
Africa

L’ombra del ritorno della pirateria nel Golfo di Aden

Di Stefania Azzolina
30.04.2017

Dopo il quinquennio 2012-2016, caratterizzato da una significativa decrescita, e il biennio 2015 – 2016 segnato da una pressoché totale assenza di attività, i primi mesi del 2017 hanno fatto registrare un preoccupante ritorno del fenomeno della pirateria nell’area del Golfo di Aden.

Infatti, nel primo quadrimestre di quest’anno, le bande operanti dalla costa della Somalia hanno effettuato circa 11 attacchi, praticamente lo stesso numero complessivo del periodo 2014-2016. Inoltre, al netto degli arrembaggi di pescherecci o dau (la tradizionale barca a vela araba con una o più vele triangolari), a destare particolare preoccupazione sono stati i sequestri del cargo emiratino ARIS 13 (14 marzo), del peschereccio somalo CASAYR (24 marzo), della petroliera indiana AL KAUSAR (3 aprile) ed infine del cargo pachistano SALAMA 1 (5 aprile), tutti avvenuti nel braccio di mare compreso tra la costa yemenita meridionale e quella settentrionale del Puntland, Stato Federale della Somalia. Se si analizza il trend decennale della pirateria nel Golfo di Aden, è possibile scorgere un significativo incremento del fenomeno tra il 2005 e il 2011, anno apicale con i suoi 276 attacchi e gli oltre 300 milioni di dollari in riscatti per imbarcazioni e ciurma, ed un altrettanto rapido declino tra il 2012 e il 2016.

In generale, considerando cumulativamente i riscatti, l’aumento nel costo delle assicurazioni navali, il maggior consumo di carburante a causa sia dell’incremento medio della velocità di navigazione sia delle miglia nautiche aggiuntive da percorrere in rotte più lunghe per evitare i tratti di mare più pericolosi ed infine gli investimenti di Stati e compagnie armatoriali per le missioni internazionali anti-pirateria e per l’ingaggio di guardie armate a bordo del naviglio commerciale, la pirateria ha avuto un impatto  economico oscillante tra i 7 ed i 12 miliardi di dollari annui. Inizialmente, a motivare le azioni dei pirati, provenienti prevalentemente dagli Stati Federali del Puntland e del Galmudug, sono state la povertà, la disoccupazione e la mancanza di risorse ittiche a causa della pesca di frodo di imbarcazioni straniere. Successivamente, le bande armate hanno proseguito i propri raid, ingolosite dai profitti sempre più sostanziosi e dalla relativa mancanza di adeguate difese da parte del naviglio commerciale.

Il declino del fenomeno è poi avvenuto per 3 ragioni ben precise: l’aumento delle misure di protezione e deterrenza nell’Oceano Indiano, consistenti nell’imbarco delle guardie armate e nell’istituzione delle missioni anti-pirateria della NATO (OCEAN SHIELD), dell’UE (EUNAVFOR ATALANTA) e degli Stati Uniti, attraverso la Combined Task Force 151; l’accumulo di ingenti capitali con la connessa necessità di controllarne il lavaggio e l’investimento a Gibuti, in Somalia e in Kenya; il timido miglioramento delle condizioni politiche e di sicurezza in Somalia e l’incremento capacitivo dell’Esercito Nazionale Somalo e delle milizie claniche istituzionalizzate dei singoli Stati Federali.

In ogni caso, durante la fase di involuzione del fenomeno, alcuni pirati hanno letteralmente tirato i remi in barca, mentre altri hanno modificato gli obiettivi dei propri attacchi, limitandosi a colpire i pescherecci non protetti, sequestrando navi ed equipaggi, oppure riconvertendosi a servizio di scorta armata per gli stessi. Tuttavia, dal 2013 ad oggi, alcuni di questi fattori sono mutati, mettendo così a rischio i risultati ottenuti sinora. Innanzitutto, il capitale accumulato dalla vecchia generazione di pirati, quella guidata dai decani Abdul Hassan, Asad “Booyah” Abdulahi, Isse Mohamoud “Yullux” Yusuf e Liban “Aragosta” Abdirahman, è ormai eroso, costringendo le bande a riprendere il mare. Contemporaneamente, la nuova generazione, priva di alternative lavorative adeguate, ha iniziato a premere per ottenere i privilegi, il denaro e il potere conseguiti da chi l’ha preceduta. Inoltre, nonostante alcune delle principali città costiere siano state messe in sicurezza, continuano ad esistere 2 fasce di instabilità in cui la pressoché totale assenza di controllo da parte delle autorità statali o federali somale garantisce la fruizione di porti profondi dotati di infrastrutture idonee all’ancoraggio delle grandi imbarcazioni che solcano il Golfo di Aden. Nello specifico, queste 2 fasce sono la costa settentrionale del Puntland, tra Qandala e Beereda, e la costa centrale della Somalia, tra el- Hur e Garacad. Infine, la conclusione di OCEAN SHIELD (a fine 2016) ha privato il dispositivo di sicurezza navale internazionale di una notevole capacità di sorveglianza e deterrenza nel Golfo di Aden. Come se non bastasse, con il calo degli attacchi, le compagnie armatoriali hanno smesso di ingaggiare i team di guardie armate ed hanno spinto i capitani delle navi a riprendere le vecchie rotte, percorse a minor velocità e a ridosso delle coste somale per ridurre i costi.

Un elemento da non sottovalutare è il ruolo svolto dalle organizzazioni criminali yemenite, che sarebbero alla base del finanziamento e del supporto logistico (navi, motori, armi e munizioni) dei pirati in cambio della spartizione del carico o degli introiti ricavati dai riscatti. Allo stesso modo, soprattutto per quanto riguarda le bande di pirati attive sulla costa settentrionale del Puntland, occorre considerare la possibile sinergia puramente economica tra queste e la neonata rete di Daesh nella regione. Infatti, il leader di ISIS in Somalia, Abdulqadr Mumin, è un alleato del pirata Isse “Yullux”. Dunque, non è da escludere che l’organizzazione jihadista e quella criminale possano trovare profittevoli intese nel settore del traffico di armi, dell’amministrazione del territorio e, forse, nella compravendita di ostaggi. La combinazione di questi elementi permette di affermare che sussiste il rischio che le bande di pirati ricomincino le attività su larga scala, sia secondo le modalità classiche dell’epoca d’oro della pirateria (2005-2011) sia secondo modalità innovative. Le innovazioni riguarderebbero innanzitutto il maggiore impiego di basi terrestri come punto di partenza per gli attacchi in mare al fianco delle tradizionali navi madre (vere e proprie unità C2 “artigianali”), di solito pescherecci o dau, ossia imbarcazioni dotate di GPS in grado di ospitare fino a 20 – 25 persone. Infatti, operando dalla terraferma, i pirati usufruirebbero di un maggior effetto sorpresa e potrebbero confondersi più facilmente con i pescatori e la popolazione locale. Una simile capacità sarebbe legata inevitabilmente al possesso di barchini più grandi, e con motori più potenti in grado di garantire maggiore velocità e stabilità in mare aperto.

In secondo luogo, le innovazioni potrebbero riguardare gli obiettivi e le modalità degli attacchi. Infatti, disponendo di un numero minore di porti dove ormeggiare le navi cargo, i pirati potrebbero concentrarsi esclusivamente sul rapimento degli equipaggi e, dove possibile, sul saccheggio dei carichi, emulando quanto messo in pratica dai loro “colleghi” del Golfo di Guinea. In questo caso, le bande cercherebbero di razziare quanto possibile, senza necessariamente curarsi di trattenere la nave come in passato, e di rapire i membri della ciurma al fine di ottenere sostanziosi riscatti. A tal proposito è bene sottolineare come un marcato orientamento verso il business dei rapimenti potrebbe condurre ad un aumento dei rapporti con al-Shabaab e con le altre realtà jihadiste attive in Somalia. Queste ultime, infatti, potrebbero acquistare ostaggi di alto valore provenienti da Paesi sensibili non solo per scopi di lucro, ossia trattare la liberazione a prezzi rialzati, ma anche a scopi politici, minacciando la loro integrità fisica o addirittura la loro vita come forma di pressione nei confronti di quei governi impegnati nella lotta al terrorismo internazionale.

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