Le sfide per la sicurezza del Golfo Persico e la strategia navale iraniana
Difesa e Sicurezza

Le sfide per la sicurezza del Golfo Persico e la strategia navale iraniana

Di Denise Morenghi
23.06.2020

Il Golfo Persico è la lingua di Oceano Indiano che separa l’Iran dalla Penisola Arabica. Lungo circa 800 km e largo tra gli 80 e 120 km, si configura come una lunga insenatura su cui si affacciano vari Stati, in primis l’Iran, che ne costituisce l’intera costa settentrionale (circa 2400 km), seguito da Iraq, Kuwait, Arabia Saudita, Bahrain, Qatar e Oman. Lo stretto di Hormuz, che lo separa dal Golfo dell’Oman, rappresenta l’unico collegamento tra il Golfo Persico e l’oceano Indiano.

Da un punto di vista geopolitico, il Golfo Persico è l’unica area che separa l’Iran dalle monarchie del Golfo e, di conseguenza, dalle basi statunitensi presenti sul loro territorio. Ma, soprattutto, è tra le più grandi riserve di petrolio e gas al mondo e, pertanto, uno dei principali snodi per il commercio globale di idrocarburi: nel 2018, in media 20.7 milioni di barili hanno attraversato lo stretto di Hormuz su base quotidiana, circa il 21% del greggio e dei prodotti petroliferi mondiali. Lo stesso anno, più di un quarto del gas naturale liquefatto (GNL) ha transitato per lo stretto, soprattutto come esportazione del Qatar, secondo esportatore mondiale di GNL al mondo e primo fornitore di GNL all’Italia.

Il principale esportatore di petrolio attraverso lo stretto di Hormuz è l’Arabia Saudita, seguita, in ordine decrescente, da Iraq, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Iran e, infine Qatar. Il petrolio del Golfo è principalmente destinato all’industria dell’Asia e del Pacifico. In tale regione la Cina, l’India, la Corea del Sud e Singapore dipendono infatti significativamente da tale linea di approvvigionamento. Washington si affida all’area in maniera più limitata: da lì proviene circa il 7% dei prodotti petroliferi attualmente consumati dagli Stati Uniti. Anche l’Italia dipende dai Paesi del Golfo per le importazioni di greggio, in primis Iraq (20% delle importazioni nel 2019) e Arabia Saudita (7.9% nel 2019). Inoltre, negli ultimi anni, l’azienda italiana Eni ha investito copiosamente nell’area del Golfo, soprattutto tramite accordi per l’esplorazione di riserve gasiere off-shore con le aziende statali degli Emirati (2018) e del Qatar (2017).

Contestualmente, uno dei motivi che rendono lo stretto di Hormuz un choke point critico a livello globale è che, nonostante la costruzione di oleodotti volti ad aggirarlo, rimane un punto di transito inevitabile per gli idrocarburi. Tuttavia, avendo una larghezza tra le 22 e le 35 miglia nautiche, è legalmente parte delle acque territoriali dell’Iran e dell’Oman. Le acque vicine alla costa di quest’ultimo sono, tuttavia, poco profonde, e la navigazione risulta più semplice nelle acque territoriali iraniane. L’Iran, inoltre, controlla sei isole all’interno dello stretto, espandendo ancora di più la propria sovranità garantita dal diritto internazionale, che prevede che le acque fino a 12 miglia nautiche dalla costa siano da considerarsi territoriali. Risulta dunque chiara la dimensione del vantaggio iraniano che, grazie alla sua posizione, può controllare in buona misura lo stretto. Qualsiasi destabilizzazione all’interno del Golfo Persico, anche se non risultante in una chiusura totale dello stesso, ha un immediato effetto sui prezzi del petrolio, rendendo il guadagno strategico dell’Iran importante anche da questo punto di vista.

Per contenere e contrastare il peso iraniano nella regione diversi Paesi hanno dato vita a missioni militari all’interno delle acque del Golfo, finalizzate a garantirne la sicurezza e la libertà di navigazione, principalmente per evitare intralci nel commercio globale di idrocarburi. Questo rende ancora più esplicito l’interesse strategico di molti Paesi nell’area. Sin dal periodo seguente alla Guerra del Golfo, gli Stati Uniti hanno dato enorme rilevanza strategica alla regione, garantendosi una presenza stabile al suo interno attraverso l’installazione della Quinta Flotta della US Navy nella base di Manama, in Bahrain. La flotta, che rischiera 25 navi, tra cui un Carrier Strike Group (CSG), composto, tra gli altri, da una portaerei di classe Nimitz e diversi cacciatorpedinieri Classe Arleigh-Burke, ha il compito di pattugliare costantemente l’area, configurandosi come cardine della strategia americana nel Golfo. Inoltre, la base di Manama viene utilizzata anche dalla task force multinazionale CTF-152, attivata nel 2004 da Stati Uniti, Italia e altri 31 Paesi, tra cui tutti i Paesi arabi del Golfo, con l’obiettivo di cooperare per garantire la sicurezza marittima dell’area. La CTF-152 non è basata su un mandato né politico né militare, e i contributi dipendono dalla volontà dei singoli Stati.

Nel 2019 gli Stati Uniti hanno anche fondato l’International Maritime Security Construct (IMSC), una coalizione tra Stati Uniti, Arabia Saudita, Bahrein, Regno Unito e Australia, finalizzata a salvaguardare la libertà di navigazione, che gode anche del supporto politico di Israele, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Pakistan e Qatar. Nel contesto dell’IMSC, nel novembre 2019 è stata lanciata l’Operation Sentinel, con un mandato chiaramente volto a contenere l’Iran e preservare la piena libertà di navigazione; ogni Stato partecipante ha inviato mezzi navali e aerei. In questo contesto, gli Stati Uniti hanno temporaneamente mandato la portaerei USS Abraham Lincoln nel Golfo tra novembre 2019 e gennaio 2020, mentre il Regno Unito ha fornito, tra settembre e dicembre 2019, una fregata, la HMS Montrose (Type-23).

Infine, nel 2020 è stata attivata anche l’operazione europea EMASOH, con la relativa missione militare AGENOR. Tale missione ha l’obiettivo di incrementare la sorveglianza marittima nello stretto di Hormuz e, al contrario dell’operazione statunitense, non è esplicitamente volta a contenere l’Iran. Si tratta di un’operazione a guida francese sostenuta politicamente da Italia, Germania, Belgio, Danimarca, Grecia, Paesi Bassi e Portogallo, che nasce in risposta all’intensificarsi delle tensioni nella regione e al conseguente danno inflitto ai commerci e alla fornitura di idrocarburi. I Paesi che hanno fornito assetti, ad oggi, sono Francia, Danimarca, Olanda e Grecia. Il comando operativo della missione, che utilizza la base francese Camp de la Paix di Abu Dhabi, al momento è affidato alla fregata francese Forbin, di classe Horizon, e della fregata olandese HNLMS De Ruyters.

L’aumento delle missioni internazionali all’interno dell’area negli ultimi anni è anche una risposta alle azioni di Tehran, che ha spesso minacciato di chiudere Hormuz in caso di offese nei suoi riguardi, soprattutto da parte degli Stati Uniti. I Guardiani della Rivoluzione Islamica (IRGC), negli ultimi anni, hanno peraltro condotto svariate azioni militari nelle acque del Golfo, quali sequestri, fermi di navi commerciali e attacchi a petroliere, al fine di asserire il proprio controllo sull’area. Per dare peso concreto alle sue minacce, l’Iran negli anni ha saputo sfruttare al meglio il proprio vantaggio geografico, sviluppando una dottrina di guerra navale asimmetrica, che gli permettesse di giocare un ruolo preminente all’interno delle dinamiche securitarie del Golfo, a fronte di una ristrettezza di mezzi e di risorse.

Il Golfo Persico è pattugliato costantemente dalla marina militare del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGCN), una delle due forze navali iraniane, la cui missione comprende la difesa della costa, del Golfo Persico e dello stretto di Hormuz. Quest’ultimo, invece, è controllato congiuntamente con la Marina Militare della Repubblica Islamica dell’Iran (IRIN), il braccio navale delle Forze Armate iraniane precedenti alla rivoluzione (Artesh), più convenzionale in termini di mezzi ed equipaggiamento e responsabile, inoltre, del controllo del Golfo dell’Oman. Le due forze marittime iraniane condividono il quartier generale, situato a Bandar Abbas, sullo stretto di Hormuz.

Gli equipaggiamenti e i mezzi dell’IRGCN sono funzionali alla zona del Golfo: è una marina dotata prevalentemente di circa un migliaio di navi piccole e veloci. Tra queste, le più piccole in assoluto, i motoscafi di classe Ashura, sono caratterizzati da una lunghezza di 7 metri e un dislocamento di appena una tonnellata. Questi vengono estensivamente utilizzati per il posizionamento di mine e principalmente per pattugliamenti in-shore. L’IRGCN dispone anche di pattugliatori ad alta velocità derivati dagli svedesi Boghammar e chiamati Torough, dal dislocamento di 7.7 tonnellate. Si aggiungono inoltre di varie classi minori di navi da attacco rapido (Fast Attack Craft, FAC), ossia navi piccole e veloci, ideali per il pattugliamento e il disturbo al transito di più grandi imbarcazioni, come le cinesi MK-I3 e i motoscafi-torpediniera autoctoni Peykaap I/II e Tarlan. Tali navi, dal dislocamento inferiore alle 10 tonnellate, ben si adattano sia agli stretti spazi di manovra del Golfo, nonché alle sue acque prevalentemente poco profonde.

Per quanto riguarda, invece, il naviglio poco più grande, con dislocamento superiore alle 15 tonnellate, l’IRGCN utilizza i motoscafi Siraj-1 (derivati dalla britannica Bladerunner 51), da 16 tonnellate, Tir (IPS 16/18) da 28 tonnellate, e i catamarani lanciamissili cinesi C-14, da 20 tonnellate, dotati di missili da crociera a corto o medio raggio, rispettivamente di tipologia Ghader o C-701/C-704. Da ultimo, di taglia più grande, troviamo le FAC (fast-attack boats) classe Thondar, derivate dalle cinesi Houdong e con un dislocamento di 205 tonnellate circa. Queste navi possono essere equipaggiate con fino a quattro missili antinave C802, esprimendo maggiore potenza di fuoco.

Per quanto riguarda invece il naviglio sommergibile, anche i sottomarini iraniani sono stati sviluppati appositamente sulle necessità contingenti del Golfo, ossia la bassa profondità e i ridotti spazi di manovra: basandosi sul modello nordcoreano della classe Yono, l’Iran ha sviluppato e prodotto 25 sottomarini IS-120 di classe Ghadir, caratterizzati dalle piccole dimensioni, con una lunghezza di circa 22 metri, dalla manovrabilità in acque poco profonde e un peso di 120 tonnellate. Questi sono armati con doppi siluri antinave pesanti YT-534-UW1 e missili antinave leggeri Jask-2. Similmente, il sottomarino di classe Nahang è stato disegnato appositamente per le basse acque del Golfo, con una lunghezza di 24 metri, un peso tra le 350 e le 400 tonnellate e la possibilità di trasportare mine; viene utilizzato probabilmente come piattaforma per operazioni speciali, non essendo dotato di tubi lanciasiluri. Accanto ai mezzi più piccoli e veloci dell’IRGCN, l’IRIN utilizza vicino ad Hormuz i più tradizionali sottomarini diesel-elettrici Project 77 classe Kilo di derivazione russa. Decisamente più grandi, con un dislocamento in immersione di circa 3125 tonnellate, e più datati, acquisiti nel 1995, vengono utilizzati dall’IRIN al fine di interdire l’accesso ad Hormuz, pattugliare le acque dell’Oceano Indiano e per azioni di posizionamento mine. Infatti, l’utilizzo di mine navali, sia telecomandate che a contatto, ampiamente sperimentato negli anni ’80 durante la guerra Iran-Iraq, gioca ancora oggi un ruolo fondamentale nella strategia navale iraniana.

Tehran dispone inoltre di un nutrito arsenale missilistico di difesa costiera, volto a coprire l’intera costa meridionale. L’IRGC ha investito molto in questo primo strato di difesa litoranea, sviluppando delle varianti autoctone dei missili da crociera antinave cinesi C700 e C802, dal raggio di 120 km: i Noor, Ghader e Ghadir, rispettivamente con raggi di 120 km, 200 km e 300 km. Il sistema utilizza anche missili balistici antinave locali: il missile antiradar Khalij-e Fars, l’Hormuz-1 e l’Hormuz-2, dal raggio di 300 km. A livello di raggio, la copertura dei missili della difesa costiera iraniana permette di colpire nell’intera area del Golfo.

Lo sviluppo di tattiche di guerra navale asimmetrica è uno degli obiettivi primari di Tehran nel Golfo: l’uso di armi atipiche, l’utilizzo non convenzionale di armi ordinarie e le tattiche di ‘naval guerrilla’ perpetrate con navi veloci e di piccole dimensioni, sono alcune tra le tecniche usate dalla Repubblica Islamica per disturbare e limitare la presenza straniera nel Golfo. Una particolare tattica sviluppata dall’IRGCN è proprio quella dello swarming, ovvero l’utilizzo di gruppi di piccole navi armate con missili a corto raggio e provenienti da direzioni multiple per attaccare in modo seriale e sistematico l’avversario, al fine di confonderlo e ostacolarlo nella condotta delle operazioni. Questa tecnica punta sull’effetto sorpresa, sfruttando appieno la situational awareness iraniana nel Golfo, garantita dall’esperienza nell’area a livello geografico e climatico, nonché sulla prossimità fisica dell’Iran al teatro delle operazioni. Quest’ultimo elemento permette un dispiegamento di forze molto più celere e, potenzialmente, un alto grado di saturazione dello spazio marittimo del Golfo condotto tramite i propri mezzi. Nell’impossibilità di controllare completamente le acque del Golfo, principalmente a causa della netta inferiorità militare e tecnologica rispetto ai principali avversari, in primis gli Stati Uniti, Tehran ha impostato la propria strategia navale con l’obiettivo di negare il consolidamento del controllo navale straniero sull’area (sea control denial), disturbandone la presenza e indebolendone le azioni.

Il confronto tra Iran e Stati Uniti negli ultimi anni ha subito un’importante escalation: la presenza americana nelle basi nel Golfo è aumentata considerevolmente e i Pasdaran, più o meno esplicitamente, si sono resi colpevoli di vari attacchi ad obiettivi americani o alleati. Tra i più noti, l’abbattimento da parte delle Guardie della Rivoluzione Islamica del drone da sorveglianza marittima statunitense MQ-4C Triton tramite un missile teleguidato, avvenuto il 20 giugno 2019 nei pressi dello stretto di Hormuz, vicino alla città di Kuhmobarak, nel sud dell’Iran. Nello stesso anno, molti sono stati gli episodi di sequestro di petroliere, come la Stena Impero, battente bandiera britannica, e l’emiratina Riah, entrambe dirottate nel porto di Bandar Abbas. L’ultimo incidente è accaduto il 15 Aprile 2020, quando l’IRGCN ha condotto una delle sue consuete intercettazioni ad alta velocità, avvicinandosi molto a navi militari americane nel Golfo, causando la reazione del presidente Trump, il quale ha successivamente ordinato di colpire qualsiasi nave iraniana che disturbasse la presenza statunitense nell’area. Le parole del Presidente americano vanno lette in relazione alle dinamiche del Golfo e, nello specifico, al continuo braccio di ferro tra le azioni di Tehran, incentrate attorno al sea control denial, e l’insistenza degli Stati Uniti, che vogliono garantire la libertà di navigazione nell’area, nonché allargare il proprio spazio di manovra nel Golfo. Se, data l’importanza del Golfo Persico a livello economico, uno scontro militare diretto non rientra negli obiettivi di nessuna delle due parti e si configura, di conseguenza, come un’eventualità poco probabile, è altrettanto vero che, verosimilmente, l’Iran continuerà a paventare la chiusura di Hormuz e l’attacco alle infrastrutture critiche della zona, come arma di deterrenza e disturbo per la presenza straniera. In tale contesto, le azioni di intralcio, avvicinamento o bersagliamento di navi straniere e le conseguenti escalation, sono uno degli strumenti utili all’Iran per bilanciare gli equilibri di forza e ribadire la propria presenza e assertività. Si tratta dunque di un fragile equilibrio. Alla luce del progressivo intensificarsi della presenza militare nell’area e delle minacce da entrambe le parti, il quadro securitario potrebbe infatti in qualsiasi momento deteriorarsi, anche a causa di banali incomprensioni ed errori di calcolo, dando vita ad episodi di scontro sempre meno localizzati e dal carattere sempre più convenzionale.

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