L’azione umanitaria cinese in Africa come strumento di politica estera
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L’azione umanitaria cinese in Africa come strumento di politica estera

Di Sara Nicoletti
01.09.2019

Il 23 giugno scorso, il Vice Ministro dell’Agricoltura e degli Affari Rurali cinese, Qu Dongyu, è stato eletto Direttore Generale della Food and Agriculture Organization (FAO) delle Nazioni Unite, battendo, con 108 voti su 191, la candidata francese Catherine Geslain-Lanéelle, supportata dall’Unione Europea (UE), e il candidato georgiano Davit Kirvalidze, forte del sostegno statunitense.

La nomina di una personalità cinese alla guida di un’organizzazione delle Nazioni Unite, in particolare di un’organizzazione improntata sull’attività umanitaria, è rilevante principalmente per due aspetti. Il primo è la tradizionale complessità del rapporto tra la Cina e il sistema multilaterale della cooperazione internazionale, con Pechino costantemente divisa tra l’intenzione di integrarvisi e la reticenza a sottostare alle sue regole, percepite come troppo intrusive nei confronti dei sistemi politici dei recipienti. La seconda ragione è che questa nomina è stata resa possibile dal sostegno massiccio che Qu ha ricevuto dai Paesi africani. Nonostante questo esito possa essere ascritto all’imponente attività commerciale avviata dalla Cina nel continente africano, è tuttavia influente anche la peculiare azione umanitaria cinese in Africa.

Sebbene ottenere dati sull’effettivo contributo cinese alle attività umanitarie sia difficile (soprattutto a causa della sua reticenza a riportare i suoi movimenti finanziari alle organizzazioni internazionali), il Financial Tracking Service (FTS) dell’ Organizzazione delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (UN Office for the Coordination of Humanitarian Affaris, UNOCHA) ha rilevato un rapido aumento negli aiuti da parte di Pechino: mentre nel periodo 2004-2009 la Cina ha stanziato in media solo 5,8 milioni di dollari l’anno per attività umanitarie (escludendo il 2005, quando ha stanziato 62 milioni di dollari per lo tsunami in India), tra il 2010 e il 2015 questa cifra è salita a circa 43 milioni. Lo stesso trend può essere osservato più in generale nella spesa cinese per gli aiuti all’estero, che non comprende solo la spesa umanitaria nel suo senso più ristretto, ma anche gli aiuti allo sviluppo e i progetti a lungo termine. Anche in questo caso, secondo la China-Africa Research Initiative, si assiste a un aumento della spesa cinese tra il 2003 e il 2015 da 631 milioni di dollari a 3 miliardi. In entrambi i casi, si può rilevare una terza fase, quella degli ultimi quattro anni, che si potrebbe definire altalenante, considerando il declino vertiginoso sia della spesa umanitaria che di quella per gli aiuti allo sviluppo nel 2016, la ripresa nel 2017 e il nuovo crollo nel 2018. In ogni caso, i numeri si mantengono sempre ben al di sopra della media di un decennio fa, denotando come l’impegno umanitario cinese sia cresciuto e possa essere ormai comparabile con quello di altri Paesi occidentali. Tuttavia, sebbene le cifre siano maggiormente comparabili, la Cina rimane un attore relativamente modesto nel panorama umanitario globale, ben distante dai maggiori donatori del pianeta (USA e Commissione Europea), ma anche da Paesi occidentali con capacità in termini di PIL ben inferiori a quelle cinesi. La Cina, attualmente, non compare nemmeno tra i primi 20 donatori a livello globale, il che la rende ancora marginale nel settore.

Tuttavia, Pechino riesce sempre di più a presentarsi come un attore umanitario credibile agli occhi degli africani, a causa del suo carattere ibrido tra una super potenza economica e un Paese in via di sviluppo. Questo aspetto le permette di adottare verso i Paesi africani un atteggiamento percepito come meno paternalistico di quello occidentale, in quanto la sua retorica umanitaria fa leva su un comune spirito anti-coloniale e sulla promozione di una cooperazione Sud-Sud.

La retorica dell’umanitarismo cinese si basa sul cosiddetto approccio “dei cinque no”: no all’interferenza nei percorsi nazionali di sviluppo; no all’interferenza negli affari interni; no all’imposizione del volere cinese sui Paesi africani; no alla politicizzazione dell’azione in Africa; no alla ricerca di tornaconti personali. Per quanto questo approccio sia più propagandistico che reale, esso denota una netta contrapposizione al classico approccio multilaterale modellato dall’Occidente. Dall’intenzione di attenersi a questi principi ne consegue che la Cina privilegi il prestare soccorso per disastri naturali piuttosto che in situazioni politicamente più complesse. La volontà di non politicizzare l’azione umanitaria da parte della Cina è evidente anche nella concezione di aiuto umanitario nel lungo periodo come aiuto allo sviluppo economico, tramite investimenti in infrastrutture e business, piuttosto che come aiuto allo sviluppo politico tramite la proliferazione di istituzioni democratiche. L’aspetto politico e democratico dello sviluppo è largamente ignorato dall’attività umanitaria cinese.

Se da un lato l’aumento dell’impegno umanitario cinese cela delle motivazioni economiche, dettate dalla necessità di trovare nuovi mercati e ricavare maggiori profitti tramite contratti vantaggiosi per lo sfruttamento delle risorse naturali del continente o l’assegnazione di appalti per la costruzione di massicce opere pubbliche, una ragione altrettanto importante sembra essere una strategia politico-diplomatica. Infatti, fornendo assistenza umanitaria a determinati Paesi africani, la Cina riesce ad assicurarsi una lealtà politica che si traduce in supporto nelle assemblee internazionali e nelle istituzioni multilaterali, come è avvenuto nel caso dell’elezione del Direttore Generale della FAO. L’azione umanitaria cinese è pertanto mirata non tanto e non necessariamente a Paesi ricchi di materie prime da sfruttare economicamente, quanto a quei Paesi per cui nutre un interesse politico-diplomatico, cosa che la porta spesso a scegliere degli obiettivi per le sue attività umanitarie molto diversi da quelli considerati prioritari dal resto della Comunità Internazionale. Ad esempio, nel 2011 gran parte del budget “umanitario” cinese fu diretto verso operazioni di resilienza alla carestia e alla siccità in Africa Orientale, con aiuti mirati a quattro Paesi: Kenya, Etiopia, Somalia e Gibuti.

Si può notare come tutti e quattro i Paesi siano politicamente e/o economicamente interessanti da una prospettiva cinese. Kenya ed Etiopia sono potenze rilevanti nel contesto africano, nonché economie in grande espansione e mercati per il manifatturiero di Pechino, mentre Somalia e Gibuti rappresentano Stati fondamentali per dinamiche legate al contrasto al terrorismo e alle rotte commerciali lungo l’asse Oceano Indiano – Mar Mediterraneo. Emerge quindi come la Cina fornisca aiuti umanitari in via preferenziale, selezionando strategicamente i Paesi riceventi.

Per approfondire il dialogo tra Cina e Africa in termini umanitari, Pechino ha dato vita ad alcune organizzazioni: innanzitutto il Forum sulla Cooperazione Cina-Africa (Forum On China-Africa Cooperation, FOCAC), lanciato nel 2000 proprio per istituzionalizzare le relazioni tra i due partner, e l’Agenzia Cinese di Cooperazione allo Sviluppo Internazionale (China International Development Cooperation Agency, CIDCA), creata nel 2018 per promulgare piani e linee guida per la cooperazione internazionale. Inoltre, sempre più attori della società civile hanno avviato attività umanitarie, andando a rafforzare l’agenda cinese di politica estera senza essere necessariamente mossi dalle stesse ragioni politiche.

Uno dei settori umanitari in cui la Cina è più attiva è quello dell’eliminazione della fame nel mondo, per il raggiungimento dell’obiettivo “Zero Hunger” promosso dalle Nazioni Unite tra gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile per il 2030. La Cina ha infatti collaborato negli anni scorsi con il World Food Programme (WFP) dell’ONU, facendo ingenti donazioni di denaro, ma anche fornendo materialmente cibo (soprattutto riso) a regioni africane colpite dalla carestia come Sud Sudan, Somalia, Repubblica Democratica del Congo, Lesotho e Repubblica del Congo. Questo modello di sviluppo improntato sulla riduzione della fame, accompagnata dalla creazione di infrastrutture e all’attrazione di investimenti, è già stato sperimentato efficacemente dalla Cina nella sua politica interna. Infatti, tramite una serie di programmi molteplici, da riforme rurali a piani di rinnovamento economici e infrastrutturali, la Cina è riuscita a dimezzare il numero di cittadini affetti da malnutrizione nel giro di pochi anni, diventando il primo Paese a raggiungere uno dei suoi Obiettivi di Sviluppo del Millennio, ovvero dimezzare la malnutrizione entro il 2015.

Nell’applicare una simile strategia alla sua politica estera umanitaria, l’obiettivo ultimo dell’azione cinese nei confronti dei Paesi sopramenzionati è quello di creare una maggiore stabilità a due propositi: uno commerciale, ovvero avere un partner affidabile per gli investimenti; l’altro securitario, poiché un Paese economicamente florido e non vessato dalla fame è più sicuro per stabilire aziende e trasferire personale cinese garantendone l’incolumità.

Il quadro che emerge è quello di una Cina che da un lato aspira a una maggiore integrazione nel sistema multilaterale, come dimostrato dalla crescente collaborazione con istituzioni umanitarie come la FAO o il WFP e l’ottenimento di cariche apicali al loro interno, che le permetta di presentarsi come attore credibile non solo nei confronti dei Paesi recipienti ma anche e soprattutto nei confronti delle tradizionali potenze in campo umanitario come Stati Uniti ed Europa; dall’altro, è evidente il desiderio di promuovere un nuovo modello di assistenza umanitaria e cooperazione allo sviluppo che abbia delle caratteristiche peculiari cinesi, un vero e proprio modello umanitario made in China, basato su investimenti finanziari mirati, un basso coinvolgimento nei contesti politici dei Paesi assistiti e la predilezione per la negoziazione bilaterale in luogo di quella multilaterale.

Questo modello sicuramente serve l’agenda dello Stato cinese in termini commerciali, ma è anche utile da un punto di vista diplomatico, non solo per ottenere il supporto dei Paesi in via di sviluppo nei forum internazionali ma anche per mettere in ombra quegli aspetti della cooperazione internazionale in cui la Cina è ancora carente, in particolare una tutela a 360° dei diritti umani e il consolidamento delle istituzioni democratiche. Il soft power che le deriva dagli aiuti allo sviluppo, testimoniato ad esempio dalla crescente presenza di scuole di lingua cinese sul territorio africano o di prodotti cinesi nei mercati del continente, mette in difficoltà Europa e Stati Uniti. Infatti, se il loro soft power era già stato incrinato dalla controversa gestione dei flussi migratori e da un atteggiamento percepito come paternalistico dai recipienti dell’assistenza umanitaria occidentale, la presenza dell’alternativa cinese rende ancora più difficoltoso per l’Occidente recuperare legittimità agli occhi dei Paesi in via di sviluppo. È pertanto plausibile che gran parte dei confronti tra Cina e Paesi occidentali dei prossimi anni si giocherà nel continente africano, nel quale in questo momento coesistono e lottano gli interessi diplomatici e commerciali di un numero crescente di attori.

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